Rivive nella Messa in la bemolle l'intensa spiritualità di Schubert
domenica 23 febbraio 2003
Una curiosa coincidenza accomuna due capolavori assoluti del repertorio musicale sacro: negli stessi, identici anni in cui Ludwig van Beethoven lavora alacremente alla Missa solemnis (1819-1822), Franz Schubert è impegnato nella stesura della Messa in la bemolle. Diverse per ispirazione e carattere, queste due opere rappresentano in modo evidente espressioni differenti del sentire religioso: mentre Beethoven, attraverso michelangioleschi squarci di luce e titaniche proporzioni, mira a fissare un'impronta di universalità cosmica al proprio percorso artistico e confessionale, Schubert si concentra su un atto assolutamente individuale, in cui non è difficile scorgere il riflesso della sua sensibile personalità, degli intimi dissidi e delle domande esistenziali che ne hanno contrassegnato l'intera esistenza. Dopo aver completato quattro Messe nell'arco di un solo triennio (tra il 1814 e il 1816), è con la Messa in la bemolle maggiore D.678 che il musicista viennese segna un punto di svolta all'interno del proprio corpus compositivo sacro, suggellato in seguito dalla Deutsche Messe D.872 e dalla grandiosa Messa in mi bemolle maggiore D.950 (ultimata pochi mesi prima di morire). Nell'illuminante interpretazione recentemente realizzata da Philippe Herreweghe alla guida del RIAS-Kammerchor e dell'Orchestre des Champs élysées (cd pubblicato da Harmonia Mundi e distribuito da Ducale), la Messa in la bemolle si rivela un prisma caleidoscopico che riflette fedelmente la profonda vena creativa scaturita dalla poetica spiritualità musicale di Schubert. Senza mai cadere in una facile retorica di stampo romanticistico, il direttore belga ne ricompone mirabilmente le fila attraverso una lettura decisamente unitaria, giocata in un esemplare equilibrio tra le parti solistiche e quelle corali: appena sussurrata tra le pieghe del Kyrie, energicamente espressa nei policromi pannelli sonori del Gloria (con l'impressionante unisono di tutte le voci a evocare l'onnipotenza divina nel «Quoniam»), incisa nelle severe trame del Credo (tra l'arcaico rigore dell'«Et incarnatus» e il drammatico afflato del «Crucifixus»), scolpita con forza nel marmoreo Sanctus, lasciata in sospeso nell'estatico Benedictus e poi liberata nel pacificante Agnus Dei.
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