Rita, la seconda chance per le donne in carcere
giovedì 14 maggio 2020

Quando Rita fu arrestata la prima volta, nel 2007, aveva quasi 50 anni e protestava in piazza contro il governo perché in uno Zimbabwe devastato dall'Aids (a tutt'oggi il 13% della popolazione ne è malato) i farmaci antiretrovirali erano introvabili. Stette una settimana in una cella del carcere femminile della capitale Harare: in sette condividevano un secchio per i bisogni. Rita, già da anni sindacalista e attivista per i diritti delle donne, promise alle sue compagne di cella che non le avrebbe dimenticate. Oggi Rita Nyampinga è una piccola celebrità in Africa: presente nel board di numerose associazioni, dalla Zimbabwe Coalition on Debt and Development alla World March of Woman, nel marzo scorso a Washington ha ricevuto il riconoscimento Women of Courage dal Dipartimento di Stato Usa. Con la ong che ha fondato nel 2010, Femprist (Female Prisoners Support Trust) Rita Nyampinga, 62 anni, offre una seconda possibilità per le donne carcerate, in un Paese in cui lo stigma sociale verso di esse è fortissimo, a tal punto da essere quasi sempre rifiutate dalla famiglia una volta scontata la pena.

«Abbiamo assistito più di 700 donne – racconta Rita ad Avvenire –. Finché sono in carcere identifichiamo le loro capacità, poi quando escono forniamo un piccolo supporto economico per iniziare un'attività: giardinaggio, allevamento di pollame, parrucchiera… ». Una vicenda che l'ha particolarmente colpita? «Una vedova, arrestata per aver venduto una mucca di proprietà del defunto marito. Era stata accusata di furto di bestiame. Ha trascorso sette anni in carcere, ha imparato ad acconciare i capelli e noi abbiamo finanziato il suo progetto. La sua vita è cambiata». I crimini più comunemente commessi dalle donne sono omicidio, furto, frode, taccheggio, traffico di persone, aggressione. Spesso il reato è la reazione a situazioni di abuso o sfruttamento. Sono tantissime le ragazze che arrivano nella capitale dalle campagne per servire nelle case, non vengono pagate e per sopravvivere rubano qualcosa da mangiare o un paio di scarpe e poi sono accusate di furto dai padroni di casa. E le condizioni nelle prigioni dello Zimbabwe sono terribili: sono documentate scarsità di cibo, malnutrizione e mancanza di cure mediche. «I diritti umani dipendono dal contesto… », continua Rita Nyampinga. In più, la cultura africana non accetta che la donna, personificazione della cura e nella maternità, commetta un reato. È un tabù, «così il reinserimento nella comunità di provenienza è un compito mastodontico».

Femprist ha questa missione: creare occasioni di riabilitazione e di reinserimento per le donne che escono dalla prigione. Trovare finanziamenti è molto duro, proprio per lo stigma che colpisce le donne colpevoli di reato. Rita ha messo a disposizione il patrimonio personale e anche la sua casa, che in questi anni ha ospitato più di 200 ex carcerate che non sapevano dove andare. «Quando sollecito donazioni, spiego che dietro a una donna che viene arrestata ci sono tra le 5 e le 10 persone che riportano un impatto negativo», racconta. Rita – quarta di tre fratelli maschi, deve il suo nome alle ultime quattro lettere del nome della madre, Margarita – combatte perché alle "sue" donne non sia tolto tutto. Come è accaduto a Thelma, che dopo aver quasi ucciso il marito versandogli addosso l'olio bollente in seguito all'ennesimo tentativo di portare in casa una seconda moglie, è andata in carcere e non ha più avuto notizie dei suoi due figli, allontanati dall'altra donna. «I parenti non vanno a trovare le detenute, perché spostarsi costa e perché preferiscono cancellarle dalle loro vite», racconta ancora Rita. «Femprist cerca di recuperare queste relazioni, in modo che all'uscita dal carcere abbiano ancora qualcuno su cui contare». Una seconda possibilità.

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