Ridere degli errori altrui fa crescere solo i «like»
venerdì 5 aprile 2019
Uno degli sport preferiti dagli utenti dei social è sottolineare la pochezza del prossimo in vari modi. Si va da semplici frasi (tipo: «Dobbiamo estinguerci» – sottinteso: perché visto l'infimo livello al quale il genere umano è arrivato non siamo più degni di vivere) fino alla creazione di pagine che raccolgono i commenti più assurdi scovati sui social. Spesso si tratta di reazioni vere a finti post indignati postati su Facebook, costruiti volutamente su fatti inventati e con protagonisti personaggi famosi messi in ruoli assurdi. Dal noto attore afroamericano che diventa «un fannullone arrivato sui barconi» fino addirittura a Benito Mussolini spacciato per un teatrante. Recita il post con foto a lui dedicato: «Non farò mai più teatro in Italia, perché non mi piace il Governo Lega-5 Stelle». Firmato Benoit Mousseline. Nonostante la firma sia la reinvenzione "alla francese" di Benito Mussolini, i leoni da social lo attaccano a testa bassa. I più gentili lo invitano a tornare in Africa (senza che niente indichi che arrivi da lì), molti ne chiedono l'incarcerazione e alcuni pretendono una punizione esemplare. Altri commenti sono ancora più feroci.
Leggendo questi deliri qualcuno si indigna, qualcun altro si deprime constatando il livello raggiunto da una parte del genere umano, mentre i più si fanno grasse risate. A questo punto dovremmo però chiederci: perché così tante persone si divertono davanti alla stupidità altrui? Sul tema hanno scritto nei secoli filosofi, pensatori e scrittori. Tra quest'ultimi non va dimenticata la fulminante trilogia di Fruttero & Lucentini sulla stupidità umana (da «La prevalenza del cretino» del 1985 a «Il ritorno del cretino» del 1992 passando per «La manutenzione del sorriso» del 1988). Tutti volumi scritti ben prima della nascita dei social. Segno che il problema non è nato col digitale, ma con l'uomo. Eppure, tutti oggi si ricordano quando Umberto Eco definì i social «l'invasione degli imbecilli» e quasi tutti, ogni volta che ci pensano, muovono la testa in segno di approvazione.
Che i social scatenino anche il peggio delle persone è un dato di fatto. Ma il problema – per chi non vuole limitarsi a deridere gli altri o a prendersi beffa degli stupidi – è vasto quanto serio. Secondo l'Ocse, infatti, solo in Italia ci sono quasi 11 milioni di analfabeti funzionali. Sono persone che non sanno comprendere un contratto o un articolo. Quindi, si informano "per sentito dire". Cioè attraverso dichiarazioni semplici, frasi ad effetto o con ciò che gli raccontano amici e parenti. A esserne colpiti è anche il 20,1% dei diplomati e il 4,1% di laureati. Perché, ad esempio, niente garantisce a un fisico di saper comprendere tutto. Soprattutto in un mondo dove l'iperspecializzazione rischia di chiuderci in bolle dove si parla solo di alcune cose e con termini sempre più tecnici.
Già nel 1930 il filosofo José Ortega y Gasset nella sua «Ribellione delle masse» aveva centrato un ulteriore problema evidenziato oggi dai social: tutti siamo sciocchi e sapienti insieme. L'essere esperti in un campo (ammesso che lo siamo davvero e non sopravvalutiamo noi stessi, cadendo nell'effetto Dunning-Kruger, cosa che accade a molti) non ci mette in salvo rispetto alla possibilità di dire sonore sciocchezze su mille altri argomenti. Se da questo ci può salvare una bella iniezione di modestia e di prudenza ("rifletti, prima di parlare", ammonivano i nonni), l'altro problema resta. Come possiamo aiutare chi si informa per sentito dire (sulla politica ma anche sulla religione, la Chiesa o il Papa) a conoscere la verità? Non è una questione che riguarda solo il mondo dell'informazione ma chiunque abbia a cuore l'educazione e la crescita dei propri fratelli. Perché ridere degli errori altrui sui social (o in una cena) può anche essere per certi versi consolatorio e assolutorio, ma non fa crescere di un millimetro la società. Peccato che a chi si diverte a creare post provocatori destinati "a stanare gli stupidi", il prossimo spesso interessa meno di un like.
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