Quali sono oggi le virtù citate da Montesquieu
venerdì 18 aprile 2025
Sarà perché questa rubrica esce oggi, il 18 aprile, con l’inevitabile ricordo di una data spartiacque nella storia del nostro Paese, emblema di un fecondo intreccio tra democrazia e liberalismo, e con l’altrettanta inevitabile preoccupazione che in questo tempo quell’intreccio sia posto a rischio, non soltanto a Est, dove pienamente esso non si è mai potuto affermare, ma altresì a Ovest, nel cuore dunque di quell’Occidente che abbiamo percepito per tanti decenni come nostra bandiera e del quale, forse con troppa fretta, dichiariamo la scomparsa e non soltanto il declino. Sarà, anche e forse soprattutto, perché in questo 18 aprile si fa memoria del Venerdì Santo, con il suo bagaglio di mestizia e al tempo stesso di apertura a un Oltre, nel pieno di un anno giubilare in cui sperare contro la speranza è diventato un abito mentale che attraversa le giornate di molte donne e di molti uomini. Per queste ragioni, la rubrica odierna è diversa da quelle consuete, in quanto non è incentrata sul rapporto tra giustizia e democrazia, ma piuttosto trae spunto dal contesto in cui ci troviamo a vivere e dagli stati d’animo che lo caratterizzano: il disorientamento che percepiamo in noi e attorno a noi; la sfiducia reciproca tra cittadini, che è venuta ad affiancarsi alla risalente crescita della sfiducia del rappresentato verso i rappresentanti e verso le istituzioni; l’enfasi sulla guerra (armata, commerciale, ibrida, ecc.) di cui il lessico sopra le righe, prevalente nella comunicazione politica, costituisce un pervasivo e quotidiano compagno di viaggio. Insomma, vorrei avviare una proposta di riflessione sui presupposti del rapporto tra giustizia e democrazia, piuttosto che sulle declinazioni di tale rapporto nelle relazioni, sempre conflittuali, tra legislazione e giurisdizione, tra politica e magistrature. Da dove partire? I classici aiutano sempre, se non altro perché non si può imputare loro di parteggiare per l’una o l’altra delle opinioni e delle forze che oggi si confrontano. Tra le tante perle del “De l’Esprit des lois” del barone di Montesquieu (1748), viene spesso ricordato un passaggio in cui si afferma che il principio di una democrazia, inteso come ciò che la fa agire, è la virtù. Mentre «non ci vuole molta probità perché un governo monarchico o un governo dispotico si mantenga o si sostenga», in quanto la forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato nell’altro, regolano e tengono a freno tutto, in uno Stato popolare ci vuole una molla di più, che è proprio la virtù. In una monarchia, dove chi fa eseguire le leggi si giudica al di sopra delle leggi stesse, si ha minor bisogno di virtù che in un governo popolare, dove chi fa eseguire le leggi sente di esservi sottomesso lui stesso e di portarne il peso. La virtù, secondo l’autore francese, non va qui intesa come virtù particolare sotto il profilo morale, ma come virtù politica, cioè come amore delle leggi e della patria (a sua volta definito come amore per l’eguaglianza e per la sobrietà). Un siffatto amore richiede che l’interesse pubblico sia sempre anteposto all’interesse personale: in democrazia, lo Stato è di tutti e prospera se tutti lo desiderano e cooperano al bene comune, bene di tutti e di ciascuno. Che non si trattasse di un approccio moralistico, lo dimostra la circostanza che, com’è noto, quello “democratico” non era il regime verso cui andavano le preferenze di Montesquieu. Per quanti fra noi, invece, considerano lo Stato democratico-costituzionale (forma attuale della “democrazia” di Montesquieu) un bene prezioso da salvaguardare, la riflessione sulla virtù può tornare ancora oggi utile. © riproduzione riservata
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