Perché i dpcm restano mezzi legittimi e utili
domenica 14 marzo 2021
Per fissare le nuove regole anti-contagio il governo Draghi ha scelto la via del decreto legge, mentre il 2 marzo aveva utilizzato lo strumento del dpcm, sigla che sta per decreto del presidente del Consiglio dei ministri e che in un anno di Covid è diventata familiare anche ai non specialisti. Questa scelta è giunta a ridosso di un ordine del giorno approvato dalla Camera – e accettato dal governo – in cui si impegna l'esecutivo «a valutare l'opportunità di operare per una ridefinizione del quadro normativo delle misure di contrasto dell'epidemia anche valutando di affidare a una fonte diversa dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri... una definizione più stringente del quadro generale delle misure da applicare». All'origine di tale ordine del giorno c'è il lavoro del Comitato per la legislazione di Montecitorio che nei giorni scorsi aveva già espresso all'unanimità un parere nella stessa direzione e aveva successivamente avuto un'interlocuzione con Palazzo Chigi. Non è detto che in futuro il governo non torni a utilizzare i dpcm, ma intanto si è aperto un filone virtuoso di collaborazione con il Parlamento per individuare i percorsi più appropriati e fisiologici sulla base dell'esperienza compiuta, nella speranza che presto le condizioni epidemiologiche richiedano decisioni sempre meno convulse e ravvicinate di quanto sia accaduto in passato.
Perché il ricorso massiccio ai dpcm da parte del governo Conte (ne sono stati contati 27 da inizio pandemia) nasce proprio dalla concretezza dell'emergenza. Lo stesso ex-premier ha spiegato il senso di quell'opzione nella lectio magistralis del 26 febbraio all'università di Firenze: «Non sarebbe stato possibile lasciare l'intera regolamentazione ai soli decreti legge poiché l'imprevedibilità dell'evoluzione pandemica ci ha costretto a intervenire svariate volte anche a distanza di pochi giorni e, come sapete, la conversione dei decreti legge va operata dal Parlamento entro 60 giorni, con la conseguenza che la medesima conversione sarebbe intervenuta, il più delle volte, a effetti ormai esauriti o comunque superati dal successivo decreto».
Eppure il ricorso ai dpcm ha suscitato, oltre alle perplessità di alcuni giuristi, critiche feroci nei confronti di Conte, accusato addirittura – da parte dell'opposizione di allora e anche di qualcuno all'interno della maggioranza – di comportamenti antidemocratici. Qual è, dunque, il nodo della questione? Non è un esercizio inutile cercare di chiarirlo perché, proprio nel momento in cui ai cittadini si chiedono ulteriori sacrifici, non si può lasciare il dubbio che le restrizioni finora adottate siano state la conseguenza delle decisioni illegittime di un premier quasi golpista.
Bisogna come sempre partire dalla Costituzione che all'articolo 16 afferma il diritto di ogni cittadino alla libertà di circolazione «salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». I dpcm non potrebbero porre limiti perché non sono leggi o atti equivalenti. Proprio per questo – le cronache di un anno fa riferirono anche di un saggio accompagnamento del Quirinale – essi furono per così dire incardinati in decreti-legge che ne garantivano la base giuridica di rango primario, come richiesto dalla Carta. Anche il presidente del Comitato per la legislazione, il costituzionalista e deputato pd Stefano Ceccanti, intervenendo in Aula lo scorso 8 marzo aveva sottolineato che «sull'uso dei dpcm non c'è un problema di illegittimità costituzionale perché nelle materie in cui sono stati usati la riserva di legge non è assoluta, ma relativa e quindi è ben possibile, attraverso i dpcm, specificare delle scelte che vengono fatte nei decreti che vengono convertiti». La stessa Consulta, nella sentenza appena depositata su una legge regionale della Valle d'Aosta, è sembrata indirettamente escludere problemi di costituzionalità per i dpcm.
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