Nuova riforma dietro l'angolo
martedì 25 novembre 2008
Non si intravede la necessità di altre riforme delle pensioni. Ne sono convinti, ognuno dal suo angolo visuale, sia il Governo sia i sindacati e ancora più le diverse categorie di lavoratori. La convinzione generale è stata però infranta dalla sentenza C46/07 della Corte di giustizia europea, il 13 novembre scorso, che di fatto obbliga l'Italia a innalzare l'età pensionabile delle donne da 60 a 65 anni. La Corte ha censurato la previdenza Inpdap per i pubblici dipendenti, ai quali è richiesta un'età diversa per maturare la pensione di vecchiaia, a seconda se siano uomini o donne. Questa regola " ha giudicato la Corte " viola il principio della parità di retribuzione tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro (art. 141 della Comunità europea).
Le pensioni dell'Inpdap sono versate dallo Stato anche nella qualità di datore di lavoro. Quindi, secondo la Corte, le pensioni pubbliche rientrano in un «regime professionale» e rappresentano un'ulteriore forma di retribuzione. La Comunità europea vieta però qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, quale che sia il meccanismo che genera questa ineguaglianza. Inoltre, il pensionamento ad un'età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le donne, lavoratrici del pubblico impiego, nella loro carriera e nella vita professionale.
Anche per l'Inps. L'adeguamento dell'età pensionabile per le lavoratrici del settore pubblico investe direttamente anche la previdenza delle lavoratrici iscritte all'Inps. E questo non in base alla sentenza europea ma a causa della stessa struttura della previdenza italiana. Una maggiore età pensionabile limitata al regime Inpdap violerebbe, in linea di principio, la parità di trattamento tra tutti i cittadini(e) italiani. Non solo, ma le attuali regole pensionistiche renderebbero in ogni caso inutile l'operazione di allineamento delle età uomo/donna. Ove fosse elevata l'età solo delle assicurate Inpdap, una lavoratrice statale potrebbe, a sua scelta e nel pieno rispetto delle regole, dimettersi a 60 anni. L'Inpdap però non potrebbe liquidarle la pensione perché, al termine della sua carriera, la lavoratrice non avrebbe maturato tutti i requisiti, mancando quello dei 65 anni di età. In questi casi, interviene la legge 322/58 che impone di trasferire tutti i contributi Inpdap all'Inps. Ma nella previdenza del settore privato è ancora valido il requisito dei 60 anni, così che l'interessata potrebbe chiedere ed ottenere subito dall'Inps la pensione di vecchiaia. Moltiplicando l'esempio per tutte le lavoratrici del pubblico impiego, che diventerebbero tutte (o quasi) pensionate presso l'Inps (circa 1.400.000 mila l'anno, fonte Inpdap), si possono immaginare gli effetti dirompenti sui bilanci dell'Istituto di previdenza. Una nuova riforma ha già svoltato l'angolo.
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