Luljeta: rifugio e lavoro per le donne maltrattate
giovedì 17 marzo 2022

Solo quando si è laureata in veterinaria, nella seconda metà degli anni Ottanta, ha capito che la cura degli animali non faceva per lei. Le ferite della società la interessavano di più, e la possibilità di fare la differenza per quelli che ne erano le vittime. Così Luljeta “Luli” Qose ha ricominciato a studiare e anno dopo anno è diventata un punto di riferimento in Albania per la difesa delle donne maltrattate.

Luljeta Qose

Luljeta Qose - L.Q.

Lei è una 56enne con un bel sorriso aperto, i capelli corti scuri e un volto che rivela un temperamento per nulla arrendevole. Tra le fondatrici dell'associazione Tjeter Vizion (un'altra visione) di Elbasan, la quarta città dell'Albania con 140mila abitanti, coordina diverse attività, tra cui anche la casa-rifugio, l'unica in tutto il Paese per le minorenni. «Negli anni Novanta accoglievamo le vittime di tratta – racconta Luli in una videochiamata su WhatsApp –. Le giovanissime si facevano irretire dalle promesse di una vita piena di oggetti e vestiti di lusso e accettavano incontri a pagamento. Poi però arrivavano le violenze e il trasferimento coatto in Italia. Adesso assistiamo soprattutto le vittime di violenza domestica». Lo scenario non è tanto diverso da quello italiano: una cultura patriarcale diffusa, più radicata nei villaggi rurali, la scarsa autonomia economica delle donne. La differenza è che da noi si denuncia di più: in Albania solo il 3% delle donne maltrattate va dalla polizia.

E poi le dimensioni: in Albania ogni anno vengono uccise per mano di un familiare una dozzina di donne (13 nel 2021), su una popolazione di meno di 3 milioni di abitanti (è come se in Italia le vittime fossero 260, invece nel 2021 sono state 118).

Il Paese delle Aquile è il secondo in Europa, dopo il Montenegro, per femminicidi. Luljeta e la sua organizzazione, con altre della società civile, è riuscita nel 2006 a ottenere una legge e adesso si sta lavorando per un inasprimento delle pene. La strada per un cambio culturale è ancora lunga. «Ascolto oltre 12 donne al mese – continua Luljeta – mi parlano di violenze di uomini dediti all'alcol, disoccupati, possessivi, che impediscono loro di lavorare. Insieme decidiamo come affrontare il futuro. Noi offriamo formazione professionale e piccoli prestiti per avviare un'attività».

Così nei dintorni di Elbasan sono sorti sartorie, negozi di parrucchiere, catering. A sostenere i progetti di Tjeter Vizion da oltre 15 anni c'è anche il Cies Onlus (Centro Informazione ed Educazione allo Sviluppo), con cui attualmente collabora nell'ambito del progetto “ALIVE: uomini e donne liberi dalla violenza” cofinanziato dall'Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics).

Una delle storie che Luli racconta ad Avvenire è quella di Alina, una mamma trentenne che ha dovuto lasciare la sua casa con il figlio di 8 anni per le continue violenze del marito. «È venuta da noi annientata nell'autostima. Ha seguito un corso da parrucchiera, adesso lavora a domicilio ed è diventata una donna sicura di sé».

A un'altra Tjeter Vizion ha offerto assistenza legale per il divorzio, consulenza psicologica e sostentamento alimentare. Ed è stato bellissimo quando lei è riuscita a dire a Luli: «Ora mi sento libera, posso progettare la mia vita. Se sono qui è grazie a voi». Nei primi anni, ammette Luljeta, «le storie delle donne mi perseguitavano. Alcuni uomini mi chiamavano minacciandomi. L'esperienza mi ha insegnato ad essere più forte di loro».

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