La serie tivù su Spotify una lezione per tutti
venerdì 21 ottobre 2022
Vedere una serie tv sulla nascita di Spotify, cioè sulla più importante piattaforma di streaming dedicata alla musica e non solo (visto che ospita anche podcast di varia natura) può sembrare una cosa da nerd. Cioè da patiti della tecnologia. O al massimo, da patiti di musica. In parte forse lo è, ma se avete dei figli adolescenti mi permetto di consigliarvi di guardarla insieme a loro. Da qualche giorno è disponibile su Netflix. La storia (nessuno spoiler) è raccontata da sei punti di vista. È vero che è una scelta narrativa che serve per dare peso e lunghezza (sei puntate) a una trama che si potrebbe raccontare in un tweet. Ma questa scelta conferisce anche una profondità a una vicenda che altrimenti sarebbe solo da nerd.
Così, quella che, a prima vista, può sembrare solo il racconto di un successo digitale, apre più di una porta su qualcosa di più importante. Non è il racconto di un eroe e nemmeno di un genio. Ma di uno smanettone di computer che costruisce qualcosa di enorme. E ci riesce proprio perché affronta le cose (diffondere la musica gratuitamente ma in maniera legale) sia da outsider sia con la rigidità tipica dei “genietti informatici”. Ma senza il suo socio investitore che mette decine di milioni nel progetto e senza il suo amico informatico molto più geniale di lui, che guida tutta la squadra degli sviluppatori, Daniel avrebbe fatto un buco nell’acqua. Per non parlare della giovane avvocata che accetta di lasciare un promettente studio di avvocati per guidare una lunga ed estenuante
trattativa legale con la discografia per ottenere i diritti delle canzoni da caricare su Spotify («Un jukebox digitale» lo definisce nella serie tv il capo della filiale svedese della casa discografica Sony). A proposito: da questa storia i discografici escono malissimo. All’inizio non capiscono il progetto (sono “vecchi” e “ottusi”), in mezzo diventano arroganti e alla fine tradiscono i loro artisti, spartendosi con Spotify la maggior parte dei guadagni (come anche Avvenire ha raccontato). Se la prima parte della serie è incentrata sullo svedese Daniel Ek, lo smanettone informatico che ha creato Spotify mentre tanti appassionati di musica di quegli anni (siamo nel 2005, circa) scaricavano canzoni dal sito illegale Pirate Bay, la parte finale è tutta dedicata agli artisti. Sono loro i protagonisti e le vittime di questo sistema che ha fatto tornare a crescere gli introiti della discografia e moltiplicato il successo di alcune star ma che di fatto penalizza e soffoca 999 artisti su mille. Lo so cosa state pensando: perché dovrei vederla con i miei figli? A mio modesto parere per diverse ragioni.
Innanzitutto perché riguarda un’invenzione che usano ogni giorno. E di cui questa serie svela anche le liti che ne hanno accompagnato la nascita e ancor più l’ascesa. Dietro le ville e gli appartamenti da favola e le auto di lusso di alcuni protagonisti ci sono infatti tradimenti e bassezze. Sogni uccisi dall’arroganza e dall’avidità. C’è insomma anche il lato meno nobile di un mondo - quello digitale - di cui sempre più spesso siamo abituati a leggere quanto sia affascinante. C’è anche un altro aspetto. Vedendo la serie salta agli occhi che, alla fine, qualunque invenzione, qualunque strumento digitale che ha successo porta con sé non solo una montagna di soldi ma anche grandi responsabilità. E tradirle, a volte, significa persino tradire gli amici di scuola ai quali avevamo promesso mari e monti. Ma soprattutto significa tradire anche un po’ sé stessi. © riproduzione riservata
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