La kryptonite di super Kevin e la vera forza oltre le paure
mercoledì 21 marzo 2018
Kevin Love è un ragazzo americano di trent'anni, ma di certo non è uno fra i tanti. Provo a riassumere qualche nota biografica che spiega perché, la sua, sia una storia speciale. Iniziamo dal luogo di nascita, Santa Monica in California. Chi nasce lì, diciamocelo, già parte avvantaggiato. Il papà, Stan, è un ex giocatore di basket nella Nba con un curriculum di un certo rispetto che lo porta a giocare per i Los Angeles Lakers e i San Antonio Spurs. Zio Mike, il fratello di Stan, è uno dei membri fondatori di una band musicale di fama planetaria: i Beach Boys. Zia Kathleen è una triatleta capace di vincere un Ironman, una delle discipline sportive più dure al mondo. Il piccolo Kevin respira, insomma, fin dall'infanzia un'atmosfera fatta di successo, di fama, di gloria. Kevin, peraltro, "piccolo" resta per poco tempo, perché mentre papà Stan si prende cura di avviarlo al basket, cresce fino a raggiungere i 208 cm. Una fulminante carriera nella High School lo porta, inevitabilmente, all'esordio in Nba.
Kevin Love diventa professionista nel campionato di basket più straordinario del pianeta, difendendo per sei anni la maglia dei Minnesota Timberwolves per poi passare ai Cleveland Cavaliers. A Kevin arrivano anche enormi soddisfazioni con la nazionale a stelle e strisce: il leggendario coach Mike Krzyzewski lo convoca per il Mondiale del 2010 e Kevin, il ragazzo californiano con il successo nel Dna, diventa campione del mondo e poi, due anni dopo, a Londra nel 2012, campione olimpico. Una vita e una carriera in costante ascesa, un ragazzo e un atleta perfetto, bello, vincente. Un eroe moderno, un'icona sportiva, un modello di perfezione.
Poi, dieci giorni fa, uno dei siti all'avanguardia sui temi della narrazione sportiva, The Players' Tribune, gli chiede un articolo. Già, perché l'intuizione di quel sito fondato da un ex professionista del baseball, è quella di far raccontare storie di sport ai protagonisti di quel mondo. Così sono proprio campioni di dimensioni planetarie a prendere la penna e a raccontarsi. Fa così anche Kevin Love che, con la stessa naturalezza con cui infilerebbe una tripla su un campo di basket, spara questo incipit: «Il 5 novembre scorso, appena dopo l'intervallo contro gli Atlanta Hawks, ho avuto un attacco di panico. È venuto dal niente, non ne avevo mai avuto uno prima. Non sapevo neppure se questi attacchi di panico potessero essere reali. Ma era reale, come una mano rotta o una distorsione alla caviglia. Da quel giorno praticamente tutto ciò che riguarda il modo a cui penso alla mia salute mentale è cambiato».
Kevin Love, senza risparmiare dettagli, racconta il suo viaggio nel mondo della depressione che descrive brutalmente, come un crollo conseguente a pochi e piccoli segnali premonitori. Ci fa entrare nella sua pelle quando le parole del suo coach in time out diventano un brusio incomprensibile, la gola si annoda togliendoli il respiro, il cuore batte nel petto fino a impazzire. Racconta il desiderio di fuggire. Fuggire da quel palcoscenico, ma prima ancora dalla paura di morire. In effetti tenterà di fuggire, Love, quella sera. Lo farà correndo verso gli spogliatoi, ma perdendosi nei corridoi del palazzetto, senza poter chiedere aiuto. In preda a un panico incontrollabile si getterà a terra, immobile e così lo troveranno le persone dello staff dei Cavaliers che lo porteranno in ospedale.
Lo sport è spesso palestra di fierezza, di orgoglio, di determinazione testarda. Quanti coach, quanti campioni ci trasmettono un messaggio di invincibilità. Quante volte un atleta si sente ripetere dal suo allenatore o dai suoi genitori: «Non mollare mai, non dare segni di debolezza, non permettere a nessuno di pensare che sei in difficoltà, non farti vedere piangere». Poi, un supereroe come Kevin Love, ci parla della sua kryptonite e ci insegna a saper chiedere aiuto. Un po' come se Achille posasse per un attimo il suo scudo e ci raccontasse delle sue paure prima di andare in battaglia, rendendosi più umano, vero, vicino, perfino più credibile.
D'altronde chi fa sport sa perfettamente che si perde molto, molto più di quanto si vince e che lo sport, probabilmente, serve proprio a quello: a insegnarci che sono dozzine di sconfitte, di tentativi, di paure a rendere indimenticabile quei pochissimi momenti di vittoria. Kevin Love, con un articolo, ci insegna (finalmente) che i veri campioni sono quelli che non hanno paura di mostrarsi vulnerabili.
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