L'argento in manette alla maratona è un oro del coraggio
mercoledì 24 agosto 2016
Il gesto che cambia una vita arriva proprio all'ultimo giorno, nella gara simbolo dei Giochi Olimpici: la maratona, unica gara la cui premiazione si svolge nel corso della cerimonia di chiusura. Feyisa Lilesa ha ventisei anni, pochi per un maratoneta. La regina delle gare di corsa richiede così tanto sacrificio che le migliori performance arrivano quasi sempre con la maturità. Tuttavia grazie al suo personale di 2:04:52, Lilesa rappresenta l'Etiopia ai Giochi Olimpici e corre la gara quasi perfetta. Solo un atleta, Eliud Kipchoge, taglia il traguardo, prima di lui. Il Keniano vince, arrivando un minuto e dieci secondi prima di un gesto che cambierà una vita.Lilesa entra per secondo nel Sambodromo, una fucilata di 700 metri di cemento disegnata dall'archistar brasiliano Oscar Niemeyer per regalare a Rio un posto dove celebrare la gioia più pazza che il popolo carioca si possa permettere, il Carnevale. Non ride Lilesa, corre gli ultimi settecento metri e pensa. Chissà se il gesto nasce nella sua testa in quel preciso momento o se, al contrario, quei 42 km sono stati il pretesto per offrire il palcoscenico adatto a un gesto dirompente. Feyisa Lilesa taglia il traguardo che vale la medaglia d'argento olimpica e contemporaneamente salta quella sottile linea che trasforma un potenziale eroe nazionale in un bersaglio vivente. Alza le braccia, come fanno tutti nel momento del trionfo, ma poi le incrocia davanti alla fronte, più volte, con i pugni chiusi, a formare il gesto delle manette.Un'immagine che passerà alla storia: lui con la lingua di fuori per la fatica, la scritta Etiopia sulla maglietta verde e, più grande, il pettorale bianco con scritto il suo cognome. Perché in questa storia il cognome conta di più del Paese che rappresenta in mondovisione. Lilesa è etiope, soprattutto è Oromo, gruppo etnico di circa 25 milioni di persone, sottoposto a una dura repressione da parte del governo centrale. Lilesa spiega il suo gesto come un omaggio ai propri parenti in carcere, fra i quali suo padre. Lo spiega con l'unico strumento a sua disposizione per richiamare l'attenzione del mondo contro una repressione che minaccia i diritti umani e democratici della sua etnia. «Se torno nel mio Paese mi uccideranno o mi metteranno in prigione», sostiene ora il vicecampione olimpico che ha fatto sventolare la bandiera etiope di fronte al mondo «ma rifarò quel gesto ogni volta che potrò». Lo ripete nel corso della cerimonia di chiusura, il momento che con più forza trasmette il messaggio di fratellanza e uguaglianza dei Giochi. Terminate le competizioni, l'ossessione della prestazione, del successo per la propria bandiera, gli atleti sfilano insieme in una splendida confusione colorata e felice, gli uni di fianco agli altri: medagliati o sconosciuti, vincitori e sconfitti. Lilesa, lì davanti a quegli ambasciatori di tutto il mondo, di fronte alle 207 bandiere della nazioni che hanno preso parte ai Giochi, di fronte alla bandiera sotto la quale sono sfilati gli atleti rifugiati politici, sale sul podio e unisce le braccia sopra la fronte, come fa il popolo Oromo per fermare le cariche della polizia di Addis Abeba. Non si può non pensare ai piedi scalzi, ai pugni guantati sollevati da Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri di Città del Messico 1968, sei mesi dopo l'assassinio del reverendo Martin Luther King.Quel gesto cambiò la storia dei tre uomini su quel podio, compreso l'Australiano Peter Norman, secondo classificato, a cui costerà molto caro un silenzioso, ma sincero, appoggio ai due colleghi. La medaglia d'oro e di bronzo a Città del Messico, poi quella d'argento a Rio, quarantotto anni dopo, si completa così un virtuale podio olimpico. Tre atleti che hanno deciso di spostare la luce dei riflettori dalla propria prestazione, quella che con efficace retorica viene descritta come capace di regalare l'immortalità sportiva, per tentare di dare il proprio contributo alla realizzazione della profezia di Nelson Mandela: «Lo sport ha il potere di cambiare il mondo». Chissà se mai succederà. Nel frattempo, medaglia d'oro al coraggio di Feysa Lilesa, maratoneta Oromo.
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