Il «dovere civico» del voto alla prova dei referendum
Finalmente la discussione sui prossimi referendum comincia ad assumere toni e forme di maggiore civiltà e consapevolezza. C’è da rallegrarsene, e sperare che non regredisca. Andrebbero, in primo luogo, evitati gli inviti all’astensione. Essi appaiono sconvenienti se provengono da persone che rivestono cariche pubbliche, le quali (articolo 54 della Costituzione) vanno adempiute con disciplina: ed è difficile non comprendere in questo termine il rispetto della norma costituzionale dell’articolo 48, per cui l’esercizio del voto è dovere civico. Tali inviti destano comunque perplessità quando sottolineano che i quesiti referendari non si presterebbero a una vera e propria scelta da parte dell’elettore, in quanto gli oggetti in discussione sarebbero troppo complessi e dunque andrebbero riservati all’apprezzamento del legislatore. Questo argomento può, forse, valere per i quesiti in tema di contratti di lavoro e di licenziamenti, data la stratificazione legislativa in materia, ma non sembra valere per quello sulla responsabilità solidale dell’imprenditore committente sugli appalti, in cui l’abrogazione della limitazione di tale responsabilità civile comporterebbe la riespansione della norma generale, già in passato vigente (si veda, sul punto, la Corte costituzionale, sentenza n. 15 del 2025), e pertanto incentiverebbe il committente a ponderare maggiormente la scelta di appaltatori e subappaltatori e a controllarne più attentamente l’operato, così da ridurre gli incidenti sul lavoro. In ogni caso, l’argomento sicuramente non vale per il referendum sulla cittadinanza. In esso, la finalità dei promotori, incorporata nel quesito (Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 2025), è quella di ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale necessario affinché i cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea possano richiedere la cittadinanza italiana. Secondo i promotori, accelerare il percorso verso la cittadinanza facilita l’integrazione, e costituisce un vantaggio non soltanto per l’immigrato ma per tutta la collettività: permettendo all’immigrato di inserirsi meglio ne traiamo tutti un beneficio, come contribuenti, pensionati e concittadini (lo ha scritto efficacemente Tito Boeri proprio in questi giorni). Pur non toccando direttamente le questioni dello “ius scholae” o dello “ius culturae”, il referendum, permettendo ai genitori di trasmettere in tempi più brevi la cittadinanza italiana ai propri figli, accelera il percorso di inclusione dei minori. A nessuno, poi, sfugge che lo “straniero” di cui si tratta nel quesito sulla cittadinanza è in realtà il lavoratore straniero (il reddito appropriato è, com’è noto, un requisito per il riconoscimento della cittadinanza), e che pertanto tra i due referendum c’è un legame, un filo importante di continuità. Concludendo. Vale la pena di andare a votare? Decisamente sì. Per almeno due ragioni. In primo luogo, in quanto non di “pena” si tratta, ma di esercizio, libero e – perché no? – gioioso, di una preziosa libertà democratica, in un tempo in cui le sirene del disimpegno e dell’apatia stanno riprendendo vigore un po’ in tutti i campi e in tutti i posti. In secondo luogo, perché, almeno per due dei cinque quesiti, le alternative sono chiare e l’esito in caso di prevalenza dei sì o dei no lo è altrettanto: l’8 e il 9 giugno siamo chiamati a pronunciarci sul futuro della nostra vita sociale e sulle sue caratteristiche (inclusiva o non inclusiva). Non c’è motivo per astenersi rispetto a questa sfida. © riproduzione riservata
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