Garissa: la nostra responsabilità racchiusa in un guardare sbagliato
mercoledì 8 aprile 2015
Le parole del Papa e le celebrazioni della Pasqua esauriscono negli ultimi giorni gli interessi di siti e blog ecclesiali, che comunque pubblicano poco: risentono del tempo festivo. La parte ludica della Rete, e di noi, si concentra, con vignette e fotomontaggi, nell'immaginare come sarebbe andata “quella” mattina di Pasqua, davanti al sepolcro vuoto, se i testimoni avessero avuto gli smartphone e i tablet. Ma quella più pensosa non smette di interrogarsi sui venerdì di Passione che uomini hanno continuato quotidianamente a infliggere ad altri uomini. E sulle immagini, vere e dolorosissime, di questo martirio.Si interroga in particolare Igiaba Scego, in un intervento sul sito di “Internazionale” (http://tinyurl.com/nxko5pd) condivisomi da Elena Pirazzoli. Titolo eloquente: «Non volevo vedere quelle foto». Scrittrice italiana di origini somale, che già nei giorni della strage di Parigi aveva pronunciato parole sapienti, racconta che, «con il suo carico di morte e disperazione», la foto del massacro degli studenti di Garissa (Kenya) le si è «imposta». Poi riassume la porzione di dibattito già svoltasi in proposito tra due giornalisti americani, su Twitter, e sul “Corriere della sera” l'intervento di Paolo Giordano: si ragiona del rapporto tra pubblicazione delle foto e colore della pelle delle vittime.Il punto, invece, dice la Scego, è che c'è «qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro guardare», non importa se le vittime sono nere o bianche, cristiane o musulmane. La conforta un commento su Facebook di Seble Woldeghiorghis, «italianissima e africanissima». A maggior ragione nell'era del web 2.0 e della disintermediazione – l'ho già detto altre volte – tutti, dico tutti, non solo i “professionisti”, dobbiamo sentire con forza la responsabilità di ciò che pubblichiamo, non importa se siamo la fonte o l'ennesimo ripetitore. Se non la sentiamo, vuol dire che il nostro guardare, per primo, ha disonorato i morti. E ci ha reso «cassa di risonanza a chi li ha ridotti così».
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