Con il nuovo governo il vecchio decretismo
domenica 20 novembre 2022
Cambiato il governo, non è cambiata la tendenza alla proliferazione dei decreti-legge, almeno a guardare il primo mese di attività del nuovo esecutivo. Quattro riunioni del Consiglio dei ministri, quattro decreti-legge approvati. All'inizio di un percorso, dopo una lunga sosta, potrebbe persino essere comprensibile, ma (sperando di essere smentiti) è difficile non pensare che invece ci si stia adeguando anche stavolta a una tendenza purtroppo cronicizzata. La stessa che i partiti criticano aspramente quando sono all'opposizione, accusando il governo in carica di monopolizzare l'attività del Parlamento – sempre più assorbito dalla conversione in legge delle iniziative dell'esecutivo – salvo poi comportarsi allo stesso modo quando approdano a Palazzo Chigi. Il primo comma dell'articolo 77 della Costituzione afferma perentoriamente che «il governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria». Il secondo comma, tuttavia, prevede un'eccezione a questo principio: «Quando, in casi straordinari di necessità e urgenza, il governo adotta sotto la sua responsabilità provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni». Il terzo comma fissa in sessanta giorni dalla pubblicazione il termine massimo per la conversione. Se questo è il dettato costituzionale, bisogna prendere atto che ormai da anni si registra una costante inversione della logica così limpidamente descritta dalla Carta. L'eccezione sta diventando progressivamente la regola, con l'aggravante che per superare gli scogli dell'iter parlamentare si ricorre frequentemente ai maxiemendamenti, su cui viene posta ad abundantiam la questione di fiducia. Il punto che si vuole sottolineare non è tanto quello della sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza, che pure è un argomento di estrema rilevanza. È proprio di questi giorni una correzione in corsa – su autorevole suggerimento – del cosiddetto decreto aiuti quater, da cui è stata espunta per lampante mancanza dei suddetti requisiti la norma che portava a cinquemila euro il tetto del contante, misura che sarà dirottata nel disegno di legge di bilancio. Qui preme soprattutto mettere in luce «la degenerazione che... ha subìto il procedimento legislativo per effetto dell'intreccio decreto legge-maxiemendamento-questione di fiducia», per usare le parole della Commissione per le riforme costituzionali che già nel 2013 definiva «nota» questa deriva. C'è evidentemente un problema strutturale da risolvere che chiama in causa non solo i decreti-legge e il rapporto tra governo e Parlamento, ma anche il nodo irrisolto del “bicameralismo perfetto”. Anche la prossima legge di bilancio, per dire, si dà quasi per scontato che sarà di fatto esaminata solo da un ramo del Parlamento. L'altro avrà giusto il tempo per una frettolosa ratifica. Stavolta i margini erano oggettivamente stretti per colpa della brusca interruzione della legislatura. Ma ogni anno c'è un motivo diverso per giustificare questa sorta di “monocameralismo alternato”: una volta tocca alla Camera, l'altra al Senato. La riduzione del numero dei parlamentari poteva essere l'occasione per mettere mano a tali questioni. Così non è stato. © riproduzione riservata
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