
Niente andava come il futuro grande antropologo Claude Lévi-Strauss avrebbe voluto. Era ormai noto nell’ambiente culturale parigino, molto stimato, ma lui sentiva quei riconoscimenti professionali inadeguati alla sua personalità, al suo modo di intendere la ricerca. Poi, sulle soglie dei suoi trent’anni, ecco un’offerta di lavoro gli cambiò la vita. Giunse l’invito a insegnare sociologia all’Università di São Paulo, in Brasile. Lasciava l’Europa per la prima volta. Nei tre anni brasiliani, organizzò spedizioni presso comunità indigene in luoghi remoti e sconosciuti: gli si disvelò un mondo nuovo, dal cui studio fu rapito e travolto. Ne scrisse nel libro che gli diede la fama internazionale, il bellissimo Tristi tropici. Nell’ultimo capitolo, “Il ritorno”, raccontò di come essere andato tanto lontano gli fosse stato utile a riconciliarsi con il passato, con il suo Paese e con la sua cultura. Scrisse di come mentre osservava la natura selvaggia del Mato Grosso, gli fossero tornate all’orecchio certe amatissime sonate di Chopin. Scoprire quel genere di scissione del pensiero, quelle strane trappole generate dalla nostalgia, quello anche significava una svolta. Dava senso al suo lavoro, corroborava la peculiarità tanto speciale della sua persona e del suo stesso lavoro di ricercatore.
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