Legge elettorale, servono sensibilità e dialogo
Nel dibattito a fasi alterne sulla riforma elettorale si torna a parlare di preferenze. Il fatto che a farlo sia stata la premier in una sede ufficiale (il question time al Senato, rispondendo a una domanda di Matteo Renzi) conferisce alla sortita un oggettivo rilievo, per quanto la materia elettorale risulti notoriamente sfuggente e instabile, mentre dovrebbe essere esattamente il contrario. Le parole di Giorgia Meloni in favore delle preferenze se non altro accendono una luce su un aspetto che altrimenti rischierebbe di passare in secondo piano. E che tale aspetto assuma sin d’ora un’evidenza nel dibattito pubblico risulta particolarmente importante se dovesse davvero prendere corpo l’ipotesi di anticipare la riforma della legge elettorale (che è una legge ordinaria per quanto di eccezionale importanza degli equilibri istituzionali) rispetto al tentativo di introdurre formalmente il premierato. Il sistema attualmente in vigore prevede quelle che nel lessico corrente vengono definite “liste bloccate”. L’elettore sceglie un partito ma poi deve prendere in blocco – appunto – il pacchetto di candidature che tale partito ha confezionato in un determinato ordine, vincolante ai fini dell’assegnazione dei seggi. Tali liste devono essere composte da pochi nominativi (si parla quindi di liste corte) perché possa essere garantita la conoscibilità dei candidati da parte dell’elettore. Questo – in estrema sintesi – è quanto ha deciso la Corte costituzionale, così che il sistema vigente prevede un massimo di quattro candidati. Dunque le liste bloccate non sono in sé incostituzionali. La Consulta, pur essendo stata chiamata più volte a intervenire in materia elettorale, ha sempre ribadito la necessità di rispettare la discrezionalità che il Parlamento deve avere in questo ambito e quindi ha cercato di ridurre al minimo indispensabile le correzioni. Ma che una norma non sia contraria alla Costituzione non implica che sia la migliore possibile. E invece capita spesso che le forze politiche, magari mugugnando contro i limiti che vorrebbero non avere, finiscano per nascondersi dietro i paletti della Corte. È quanto sta avvenendo, per restare in tema di riforma elettorale, con la soglia del 40% come condizione per il premio di maggioranza. Siccome nella sentenza sull’Italicum essa è stata giudicata accettabile dalla Consulta, è diventata un punto fermo del dibattito. Ma chi lo dice che si tratti della soluzione democraticamente più coerente? Tornando all’argomento di partenza, c’è sicuramente le necessità di superare il sistema delle liste bloccate, anche se corte, per restituire al cittadino la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Ma evocare le preferenze non basta. Ci sono dei nodi cruciali da sciogliere. Per esempio l’enormità dei collegi o delle circoscrizioni per il Senato (sono da assegnare soltanto duecento seggi) e il rischio di veder aumentare in termini esponenziali le spese elettorali. Tra gli esperti un’alternativa considerata praticabile è quella dei collegi uninominali. Ma anche in questo caso non basta la parola. Quando dopo il referendum sulla preferenza unica esplose la questione della riforma elettorale, una classe politica in gravissima crisi ma ancora capace di ragionare inventò il Mattarellum. Ci vorrebbe un’analoga sensibilità istituzionale e una simile capacità di dialogo. © riproduzione riservata
© RIPRODUZIONE RISERVATA






