Cominciammo a fare sul serio. L’ispettore restava gentile, ma le domande erano più circostanziate. Come avevo conosciuto il signor Kenobi, che cosa sapessi della sua attività, se mi avesse mai affidato qualcosa da consegnare a qualcun altro, se da lui avessi ricevuto regali e, nel caso, di che genere. Risposi quattro o cinque volte, condividendo le notizie che ho riferito in questo racconto. Mi sforzavo di restare calmo, ma era evidente che mi stessi innervosendo. «Non si preoccupi – disse l’ispettore con un tono fin troppo rassicurante –. La stiamo ascoltando come persona informata dei fatti, non è accusato di nulla. Semmai, in questa storia lei è una delle vittime». La mia espressione doveva essere così sbigottita da impietosirlo. «Mi correggo – provò a rimediare il poliziotto –.
È stato vittima per un periodo brevissimo, all’epoca del famoso errore di sistema. Abbiamo motivo di ritenere che questo Kenobi fosse in emergenza e che non potesse fare a meno di coinvolgerla. Dalle nostre rilevazioni, non è stato per più di quarantott’ore, magari anche meno. Da allora la sua connessione non è stata più toccata». Fece una pausa per fissarmi negli occhi. «Capisce quello che le sto dicendo?», concluse. Visto che non rispondevo, si rispose da solo: «Questo Kenobi è un hacker».
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