L’ispettore della Polizia postale era più in imbarazzo di me. La convocazione mi aveva colto di sorpresa, non riuscivo a capire quali informazioni potessi fornire in un’indagine di quel tipo. All’inizio le domande seguivano il solito copione: generalità, residenza, professione. «Ha mai notato anomalie nel funzionamento del suo computer o di altri device?», chiese l’ispettore, e a quel punto capii che si entrava in argomento. No, non particolarmente risposi: qualche rallentamento occasionale, niente che non si risolvesse spegnendo e riaccendendo.
«Come ai vecchi tempi», mi scappò di dire. L’ispettore era un campano dallo sguardo gentile e un po’ triste. Non aveva ancora quarant’anni. Non sapeva oppure non gli interessava sapere a che cosa mi riferissi. «Nessun errore di sistema inspiegabile?», insistette. «Forse una volta, ormai diversi anni fa», ammisi. Il poliziotto mi invitò a essere più preciso. Gli spiegai che avevo aperto l’e-mail di un amico ed era successo quello che era successo. «Per caso questo amico si chiama… – prese tempo, come se stesse decifrando un rebus – Kenobi Rikyu?». D’istinto, mi venne da pensare che per una volta la burocrazia non era nel torto, dato che i giapponesi davvero antepongono il cognome al nome. «Sì, è lui – ammisi –. È il signor Kenobi».
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