Newton e la teologia delle leggi ripetute

Il celebre fisico non aveva la patologia novecentesca della separazione dei campi, l'ansia di dire “questo è scienza” e “questo è teologia” come se fossero due mondi diversi
November 21, 2025
Newton e la teologia delle leggi ripetute
Isaac Newton scrisse più pagine di teologia che di fisica. Questa frase regge da sola un’intera enciclopedia dei fraintendimenti moderni. Perché noi — con il nostro modo contemporaneo di parlare di scienza — ci ostiniamo ancora a pensare che Newton facesse due cose diverse: che il Newton che misura la forza centripeta sia un Newton, e il Newton che cerca l’orchestrazione divina nello sviluppo della storia del tempo sia un altro Newton, quasi un fratello che vive in un’ala opposta della casa. E invece no. Erano lo stesso identico respiro. La stessa retina. La stessa silenziosa ossessione. Newton non aveva compartimenti stagni. Non aveva la patologia novecentesca della separazione dei campi. Non aveva l’ansia contemporanea di dire “questo è scienza” e “questo è teologia” come se fossero due dipartimenti universitari con badge diversi. Newton era integro. Tutto il pensiero – un monoblocco. Un’unica indagine con due alfabeti diversi.
Noi facciamo la tassonomia delle discipline perché ci consola. Perché ci tranquillizza. Ci sembra che definire i confini aiuti a capire. Newton invece cercava il campo unificato dell’esistere. Non l’esonero, non la deroga, non l’eccezione. Newton cercava Dio non nel punto in cui la legge si rompe — ma nel punto in cui la legge regge. Non nel miracolo — ma nella ripetizione. Non nel “fuori catalogo” — ma nell’assurda ostinazione dell’universo a mantenere la stessa grammatica in condizioni completamente diverse. Se vuoi capire a che livello Newton mescola cosmologia e liturgia — basta guardare questa intuizione: la grande idea non è che la mela cade; la grande intuizione è che la mela e la Luna obbediscono alla stessa equazione. Tu e io oggi lo leggiamo come atto di unificazione scientifica. Per lui, l’unificazione era sacra. Era la prova che l’universo non è un deposito di fenomeni incoerenti, ma un testo leggibile (persino elegante) — quindi scritto.
La seconda legge di inerzia di Newton su una lavagna /Icp
La seconda legge di inerzia di Newton su una lavagna /Icp
Newton non si chiede se Dio c’è “lassù”. Newton si chiede: chi ha fatto sì che questa legge valga ovunque? Per noi, nel 2025, sembra roba da editoriali culturali: barcolliamo fra simmetrie, invarianti, principi di minima azione, gauge, Lagrangiane. In realtà tutte queste parole moderne fanno ancora parte della stessa genealogia concettuale. La genealogia che dice: il reale non è casuale, il reale ha sintassi. Oggi diciamo “eleganza delle equazioni”. Se togli l’ateismo sociologico, quella frase è un nome nuovo per qualcosa di antichissimo: la bellezza come immanenza della legge. Newton non adorava Dio al posto della legge di gravità. Newton adorava Dio nella legge di gravità. Per lui l’universo è sacro non per l’eccezione — ma per la costanza. La mela cade — sempre. “Sempre” è la parola che a Newton manda in trance. “Sempre” è la parola che noi abbiamo sostituito con la parola “simmetria”. Il mondo quantistico in cui noi oggi siamo immersi è più frastagliato, meno consolatorio: le partizioni sono probabilistiche, gli esiti sono distribuzioni, gli stati non sono “questo o quello”, ma “questo E quello” finché non guardi. Noi — oggi — siamo figli dell’indeterminatezza. Newton — figlio della continuità. Ma non c’è discontinuità nella fame. Nel 2025 ci muoviamo dentro un realismo che ha accettato l’informazione come entità fisica. Misuriamo onde gravitazionali da collisioni di buchi neri. Costruiamo interferometri dove i singoli fotoni interferiscono con se stessi. Rallentiamo la luce in fibre di laboratorio. Ci sporgiamo fuori dall’atmosfera con telescopi che vedono nel vicino infrarosso un bagliore di 13 miliardi e mezzo di anni fa. Queste cose — Newton non poteva nemmeno immaginarle. Ma la domanda che lui ha fissato nel cuore della specie — è ancora la stessa: il mondo è leggibile? Non “il mondo è dominabile”, non “il mondo è manipolabile”, non “il mondo è sfruttabile” — no. Leggibile. Leggibile nel senso profondo della parola “testo”.
Newton non ha inventato la fisica come strumento di previsione. Newton ha inventato la fisica come esegetica. Newton leggeva il reale. E non gli interessava il miracolo che sospende la legge. Gli interessava il miracolo che non la sospende mai. La parte più commovente — per me — è questa: noi oggi di Newton ci ricordiamo l’unità di misura della forza, la formula, il gesto unificatore. Ma l’eredità vera non è nei numeri — è nel concetto sotto la formula. Newton non ha inventato un’equazione. Newton ha inventato una fiducia: la fiducia che l’universo non mente. Quando un fisico teorico nel 2025 parla di “eleganza” non sta descrivendo un orpello estetico — sta usando una parola che viene direttamente dalla liturgia newtoniana della legge. Newton non ammirava Dio per i miracoli. Newton ammirava Dio per l’assenza di miracoli. Per la ripetizione. Per il fatto che il reale è un sistema che ricomincia uguale, con la stessa sintassi, anche dopo un miliardo di giri di stelle. E noi — che ormai non sappiamo più pronunciare la parola “Dio” senza sentirci scorretti, goffi, provinciali — abbiamo solo spostato il vocabolario. Non diciamo “volontà”. Diciamo “simmetria”. Non diciamo “provvidenza”. Diciamo “invarianza”. Non diciamo “fede”. Diciamo “fiducia epistemica”. Ma sotto è lo stesso gesto. Lo stesso desiderio. La stessa speranza segreta: che il reale abbia una grammatica. Newton lo chiamava Dio. Noi lo chiamiamo modello teorico. Il lessico è cambiato. Il desiderio — no.
Domanda per voi: Ci fa più paura capire… o prenderci la responsabilità di capire? La mia risposta: io sento che la paura vera non è la complessità del mondo. È che — se davvero il mondo è leggibile — allora non possiamo più nasconderci dietro al “non so”. Newton ci dice questo: la realtà ha una grammatica. La domanda è: abbiamo il coraggio di leggerla? Leggerò tutte le vostre risposte: potete inviarle a interferenze@avvenire.it.

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