L'Europa, se vuole tornare a contare, deve decidere a maggioranza
Per uscire dalla paralisi, l'unanimità riproposta anche dal governo sembra rispondere a logiche del passato. Non a caso il Quirinale si era espresso in altro modo, pensando a un'Ue capace di pesare nuovamente sugli scenari internazionali

Nel corso delle comunicazioni alle Camere prima del Consiglio europeo Giorgia Meloni ha iscritto d’ufficio l’Italia al gruppo dei Paesi che intendono mantenere il meccanismo dell’unanimità di voto e quindi il potere di veto per i singoli Stati: «Non intendo formulare una proposta di revisione dei Trattati nel senso di allargare il voto a maggioranza in luogo dell’unanimità», ha detto la presidente del Consiglio. Ben noto è il diverso orientamento sul tema di Sergio Mattarella, manifestato anche davanti alla Commissione Europea: con l’Europa a 27, sostiene il Capo dello Stato, il voto all’unanimità «paralizza l’Unione», e rappresenta una «formula ampiamente superata». Il Quirinale, certo, non ha competenze dirette in politica estera, ma il mandato presidenziale fu concepito di 7 anni dai padri costituenti a garanzia di una continuità istituzionale che vada oltre le oscillazioni derivanti dai cambi di legislatura, e questo conferisce al Capo dello Stato anche il ruolo di garante dei Trattati internazionali, materia che non a caso in Costituzione è stata tenuta fuori dai temi che possono essere oggetto di referendum.
Ma al di là della forza cogente che possono avere o meno le posizioni espresse sull’argomento dal Capo dello Stato è bene fare i conti con la forza dei suoi argomenti. Non ci si può infatti richiamare a Mattei in politica estera e a De Gasperi sulla politica domestica e comunitaria tralasciando il filo rosso che unisce questi due padri della Repubblica, in virtù di una visione comune che fece del primo l’interprete simbolo di una politica post-colonialista e non predatoria in Africa, e del secondo uno dei padri del progetto europeo. Una comune visione cristiana che tratteggiava un futuro di collaborazione fra i popoli, in un quadro di crescente cessione di sovranità da garantire agli organismi sovranazionali, in primo luogo in Europa, lasciandosi alle spalle una storia di nazionalismi che avevano fatto da innesco a due devastanti guerre mondiali.
D’altronde occorre essere conseguenti. Non ci si può lamentare del ruolo poco incisivo dell’Europa, anche su questioni cruciali che la toccano da vicino come i conflitti in Medio Oriente e in Ucraina, e poi precluderle quel cambio dei meccanismi decisionali che, unico e solo, può garantire l’auspicabile salto di qualità.
Ma nello stesso Governo non ha tardato emergere con insolita nettezza la differente impostazione anche del ministro degli Esteri Antonio Tajani che, parlando da leader di Forza Italia, espressione di un partito convintamente europeista come il Ppe (ma in qualche modo anche da ex presidente del Parlamento europeo), ha detto senza giri di parole che, sul meccanismo di voto nella Ue, Meloni «ha espresso la sua opinione, mentre io penso che si debba fare un passo in avanti sul maggior ricorso al voto a maggioranza qualificata». Si tratta, minimizza Tajani, «di un dibattito normale tra forze politiche diverse», ma, confessa, «non ne abbiamo mai parlato all’interno della maggioranza», rimarcando però che la difesa europea è «un obiettivo previsto nel progetto di De Gasperi e di Berlusconi», e che per realizzarlo il voto all’unanimità «è da superare».
Ma se non se ne è parlato sarebbe ora di farlo. Il progetto di Difesa comune fu l’ultimo cimento, e l’ultima delusione, di De Gasperi, chi pensa di collocarsi sulla sua scia non può trascurare di farsi carico di questo suo lascito ereditario. E il passaggio al voto a maggioranza qualificata anche su temi cruciali come questi ne costituisce la premessa indispensabile. Tanto più che dal 4 maggio 2023, quasi ce ne eravamo dimenticati, l’Italia fa parte del “Gruppo di amici del voto a maggioranza qualificata” avendo firmato (insieme a Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Slovenia e Spagna) una dichiarazione congiunta – a livello di ministri degli Esteri – con l'intento di rilanciare il dibattito per promuovere l'uso del voto a maggioranza qualificata anche in settori, come gli esteri e la sicurezza comune, in cui non è previsto dal trattato di Lisbona. Un dossier che andrebbe ora ripreso.
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