C'è un decreto per l’Ilva. E Taranto torna a gridare
Il Cdm vara un provvedimento che autorizza Acciaierie d’Italia a utilizzare 108 milioni residui del finanziamento ponte. Venerdì nuovo incontro tra ministero, sindacati e territori. I vescovi di Genova e Tortona chiedono un «piano industriale credibile»

Dopo il disastroso incontro di martedì, il Governo sforna un nuovo decreto Ilva da portare all’ennesimo tavolo coi sindacati, convocato ieri da Adolfo Urso ancor prima dell’inizio del Cdm che ha varato il testo. Un tentativo di superare il muro alzato dalle rappresentanze dei lavoratori contro il «piano di chiusura» e di dimostrare alle opposizioni (già intente a chiedere la testa del ministro) che l’esecutivo è ancora in grado di gestire il dossier. Dalle presenze attese a Palazzo Piacentini il prossimo venerdì, si capisce che il titolare del Made in Italy è convinto in un cambio di passo. Urso porterà con sé anche la ministra del lavoro Marina Calderone e alcuni funzionari di altri dicasteri competenti. Davanti a loro siederanno le sigle nazionali e territoriali del gruppo, oltre ai rappresentanti delle regioni Puglia, Liguria e Piemonte e agli Enti locali nei quali hanno sede gli stabilimenti. L’invito è stato accolto favorevolmente, ma i sindacati hanno posto subito due condizioni: l’incontro deve avvenire «esclusivamente a Palazzo Chigi» e il governo deve ritirare il suo piano.
Il decreto, illustrato in una nota diffusa in serata dal Mimit, autorizza Acciaierie d'Italia spa in amministrazione straordinaria «a utilizzare i 108 milioni residui del finanziamento ponte» stanziato a giugno (200 milioni in tutto). Risorse indispensabili, spiegano dal ministero, «per garantire la continuità degli impianti fino a febbraio 2026, data in cui è attesa la conclusione della procedura di gara per l'individuazione dell'aggiudicatario». I restanti 92 milioni sono invece «già stati destinati agli interventi essenziali sugli altoforni, alle manutenzioni ordinarie e straordinarie, agli investimenti ambientali connessi alla nuova Aia e al Piano di Ripartenza». Per i lavoratori arrivano poi 20 milioni aggiuntivi per il biennio 2025-2026, con integrazione statale fino al 75% del trattamento di cassa integrazione straordinaria, finora sostenuta direttamente da AdI. Il provvedimento interviene anche sul fondo per gli indennizzi ai proprietari di immobili del quartiere Tamburi (a Taranto), permettendo che le somme residue del 2025 possano essere utilizzate per integrare gli indennizzi parziali riferiti alle domande presentate l'anno precedente. E viene riconosciuto ad AdI un ulteriore ristoro relativo ai contributi per le imprese energivore, in particolare per gli sconti sulle forniture energetiche e per le quote Ets.
La mossa dell’esecutivo basta a convincere gli operai dell’Ilva di Genova a smobilitare il presidio organizzato da mercoledì, almeno per ora: «Un primo passo importante - dicono -. Andremo a Roma a vedere quali sono le risposte del Governo». Ma la strategia non soddisfa le opposizioni. Il Pd, con la segretaria Elly Schlein, chiede a Meloni di prendere in mano la partita prima e a Urso di «farsi da parte» prima che la situazione si risolva in un «disastro sociale». La leader dem invoca «serietà» e si accoda alla richiesta dei sindacati per il ritiro di un piano che «è sostanzialmente una proposta di chiusura». Anche Giuseppe Conte, da Napoli, punta il dito sull’inerzia del governo. Perché a suo dire c’erano «tanti acquirenti» interessati all’Ilva, ma a Palazzo Chigi non hanno capito «che se vogliamo una decarbonizzazione ci dev'essere una grande assunzione di responsabilità da parte dello Stato». Anche per questo, ragiona, sarebbe stato meglio utilizzare «i miliardi stanziati per il Ponte sullo Stretto». Matteo Renzi parla anche lui di «fallimento del Governo» e invoca le dimissioni di Urso, mentre per il leader di Azione Carlo Calenda «perdere così il primo impianto industriale del Sud è una follia». Angelo Bonelli, che ha seguito la vicenda fin dall’inizio, è lapidario: «Dopo 18 decreti “salva Ilva”, il diritto costituzionale alla salute è stato sacrificato in nome della continuità produttiva. A 13 anni dal sequestro dell'impianto, né la salute né il lavoro sono oggi tutelati. Taranto è stata tradita».

Intanto si alza il grido dei vescovi di Genova e Tortona, monsignor Marco Tasca e monsignor Guido Marini, che invitano le istituzioni a considerare le parole del Papa sul lavoro come «fonte di speranza e di vita» e in una lettera congiunta chiedono «un ripensamento» e un «piano industriale credibile». «Apprendiamo con grande sorpresa l'ipotesi ventilata il 18 novembre dal Governo ai Sindacati di fermare la produzione nei siti del Nord di Acciaierie d'Italia. Andare in questa direzione pregiudica il futuro e non sembra avere una logica industriale. La vicinanza e la presenza costante in questi ambienti di lavoro ci hanno permesso di capire che non sussistono motivazioni per un depotenziamento dei due siti e per prolungare l'incertezza nella quale da molto tempo vivono i lavoratori». Senza contare le «migliaia di famiglie su cui questa decisione avrà impatto». «L'inevitabile mancato rispetto dei contratti in essere – concludono – avrà conseguenze economiche e di immagine e comprometterà le possibilità di vendita dell'azienda».
Gli operai a Taranto bloccano le strade: «Il gruppo è uno, non ci divideranno»
È lunga la notte, “uagnù’” Lo grida uno dei lavoratori dell’ex Ilva di Taranto quando ormai è buio pesto e sulla strada statale 106 non ci si riconosce uno con l’altro. È il segnale. Si resterà ad oltranza. La decisione arriva dopo una giornata di protesta iniziata prestissimo con le assemblee dentro e fuori dal siderurgico e proseguita con lo sciopero, la fabbrica occupata e i blocchi stradali che hanno paralizzato la città. Sono passate da poco le 19 quando la 106 viene liberata. Il gruppo si sposta tutto sulla strada statale Appia. In capannelli si discute di quello che viene considerato l’ “affronto” del Mimit: una convocazione, il 28 novembre prossimo, arrivata per i soli siti del Nord e poi, dopo le proteste, nel tardo pomeriggio, giunta anche per Taranto ma non subito insieme. Prima, dalle 15 alle 16, solo Genova e gli altri.
«Il gruppo si tiene solo insieme – sottolinea Biagio Prisciano, segretario della Fim Cisl ionica – i lavoratori si tengono insieme. Non si può dividere il fronte. Questa vertenza non si può spezzare in tante piccole vertenze territoriali, una per Novi, una per Genova. Lo Stato si metta alla guida del periodo di transizione che porta alla decarbonizzazione». «Ci vogliono dividere ma l’Ilva è una sola, non possono farne uno spezzatino» – gridano i lavoratori. D’altronde l’80% della forza lavoro di Acciaierie d’Italia è nel capoluogo ionico, l’unico dove esiste ancora l’area a caldo. E dei quasi ottomila diretti dei diecimila totali, tremila da anni fanno i conti con la cassaintegrazione. Un numero destinato a salire, nonostante il no dei sindacati (da 4450 esuberi a 5700 a fine 2025 e 6000 ad inizi 2026 ma 1550 dovrebbero essere impiegati in corsi di formazione a stipendio pieno, ndr). «Negli ultimi anni ci sono stati otto suicidi – racconta Franco Rizzo, dell’esecutivo nazionale Usb – tra i lavoratori in cassa. È una condizione che per alcuni può diventare insostenibile». Accanto a lui Francesco Cassanelli, 55 anni, che lavora in ex Ilva da 29 anni. Le lacrime che gli velano gli occhi non ci pensano proprio a scendere giù. Restano lì mentre racconta di casa sua che sua non è più. Monoreddito, vive in provincia, a Montemesola, insieme ai figli e alla moglie. Da tempo è in affitto perché la sua abitazione è andata all’asta. «Sono in cassaintegrazione dal 2012. Alterno settimane di lavoro a quelle di stop forzato. Ho chiesto aiuto ai miei genitori per pagare il mutuo. Un mese ci riuscivo un mese no. Per sei anni. Finché non me l’hanno tolta. Avevo i figli piccoli. È una bugia che ti facciano restare se hai bambini. Io da questa fabbrica sto cercando di andarmene. Se mettono l’incentivo all’esodo me ne vado. Firmo e me vado». «Ho scritto oggi (ieri, ndr) alla presidente del Consiglio Meloni – spiega ai lavoratori il sindaco di Taranto Piero Bitetti - invitandola a venire a Taranto o a ricevermi a Roma. Noi abbiamo sempre pensato che sia stato messo in piedi un bluff per provare a scaricare la responsabilità sugli enti locali (il riferimento è al no del consiglio comunale ad una nave rigassificatrice in porto proposta dal governo per alimentare polo Dri e decarbonizzare, considerata impattante, ndr). È arrivato il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Abbiamo bisogno di chiarezza, certezze, verità. Non abbiamo mai detto di volere l’Ilva chiusa ma decarbonizzata, nel rispetto di salute, ambiente e lavoro, ricordando che chi lavora nello stabilimento è esposto due volte». Sfilano intanto i candidati alle prossime elezioni regionali, dell’uno e dell’altro schieramento.
Portano il loro supporto anche il deputato di Fratelli d’Italia Dario Iaia «sono figlio di un operaio come voi»- ricorda e poi attacca il sindaco e gli “pseudoambientalisti” che spaventano e allontano gli investitori e il presidente uscente della Regione Puglia Michele Emiliano che assicura vicinanza «sto arrivando adesso da Roma apposta per voi e il 28 ci sarò». I lavoratori ascoltano, alcuni gridano incessantemente la loro rabbia. Come quelli dell’appalto, i più poveri di tutti, senza tutele. «Io lavoro in un’azienda multiservizi. Prendo 1100 euro al mese e ne pago la metà di mutuo. E per me non c’è alcun ammortizzatore sociale. Come faccio mangiare la mia famiglia?». «Il piano presentato a Palazzo Chigi – ribadisce a fine giornata Francesco Brigati, segretario generale della Fiom Cgil di Taranto - noi non lo accettiamo. Ci hanno detto esplicitamente che senza possibili acquirenti, dal primo di marzo non ci sono i presupposti per garantire la continuità produttiva. E per far ripartire gli impianti le persone servono dentro non in cassa. E invece le manutenzioni sono ferme. Un problema per la sicurezza ma anche un rischio per l’ambiente, con le emissioni fuggitive». I lavoratori di ex Ilva intanto incassano la solidarietà di quelli del sito locale di Leonardo. «La mobilitazione di questa mattina – scrivono – rappresenta l’ennesimo grido d’allarme di un territorio stremato da anni di incertezze, promesse disattese e scelte politiche insufficienti» .
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