Ero appena tornata a casa. Ho acceso lo smartphone quasi per abitudine - non pensavo, non ancora. Erano le 18 passate da poco. C’era il profilo del tetto della Sistina con quel comignolo secco, e il solito gabbiano sfaccendato che guardava giù, perplesso. «Niente», ho pensato, e stavo per cliccare via quando, d’improvviso, dal comignolo è uscito uno sbuffo di fumo gonfio, generoso: ma indiscutibilmente bianco. Un colpo al cuore: fumata bianca.
E già dalla piazza la gente gridava e batteva le mani, e le campane di San Pietro suonavano, mentre le volte del fumo si disperdevano nel cielo limpido di Roma, nel sole calante dietro al Cupolone. Immediato il ricordo di un’ora nel mese di aprile, vent’anni fa: quando sfilò l’infinito corteo funebre di Giovanni Paolo II.
Anche allora nel pomeriggio di primavera il sole andava nascondendosi dietro la Cupola. Nel passare degli anni, delle stagioni, dei tramonti, so che la Chiesa continua.
La folla aumenta di minuto in minuto, via della Conciliazione è già colma. Corrono, i romani, chiudendo prima uffici e negozi, per salutare il Papa. E i pellegrini arrivati dal Texas o dalle Filippine sventolano le loro bandiere come quelle della propria squadra allo stadio: ma queste sono tutte diverse, eppure tutti sembrano felici.
Felici, perché? Perché la Chiesa continua, dalla Loggia della Basilica che sorge sulla verticale della tomba di Pietro. E in questo Terzo millennio che ogni giorno ci sbalordisce e spaventa, il procedere con passo fermo della Chiesa nella storia ci conforta. Sul sagrato ora è tutto uno sfilare di Guardie svizzere e carabinieri in alta uniforme, in rigorosa formazione; marcia festante, però - non come quella che di oggi, 9 maggio, festa della Vittoria, a Mosca: stuoli di uomini tutti apparentemente uguali dietro a missili spaventosi.
Pace, sperano prima di tutto i fedeli, e non solo loro: tanti, vicini e lontani, lontani anche da Dio magari, sperano che l’uomo che si affaccerà fra poco da San Pietro sia una mano forte per la pace. E contro la paura che, anche se cerchiamo di tacitarla, in fondo ci rode. Paura per i figli, per i nipoti, in un mondo che pare ribaltato. La fede in Cristo non toglie la paura, ma permette di affrontarla, certi di non essere soli. È questa la gioia della folla che accorre.
Si spalanca la tenda cremisi della Loggia. «Nuntio vobis gaudium magnum. Habemus Papam». La folla esulta. Al nome, Prevost, un attimo di sbalordimento. Un americano, pochi lo conoscono. Classe 1955, agostiniano, a lungo missionario in Perù. Si chiamerà Leone XIV. Ora la gente aspetta il volto, le parole del Papa. Ecco, si affaccia: ha gli occhi umidi mentre guarda l’immensità della folla, ma sorride. «La pace sia con tutti voi», esordisce. Che la pace entri nel vostro cuore, prosegue, nelle vostre famiglie, in tutti i popoli: «Una pace disarmata e disarmante, umile, che proviene da Dio, che ci ama tutti incondizionatamente».
Leone XIV ricorda la voce debole ma coraggiosa di Francesco che benediva Roma, la mattina di Pasqua. «Dio ci vuole bene, ci ama tutti. Il male non prevarrà. Pertanto senza paura, mano nella mano con Dio, andiamo avanti: Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce». E poi: «Preghiamo insieme la Madonna», esorta la folla. «Ave Maria, piena di grazia… ». E tutta la piazza prega. Ciascuno nella sua lingua - ma sembra, straordinario, una sola voce, quella che sale da San Pietro.