giovedì 23 dicembre 2021
«La Curia non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza»
Il Papa alla Curia: «Date testimonianza di umiltà e di sinodalità»

Vatican Media

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«La Curia non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza, e proprio per questo acquista sempre più autorevolezza ed efficacia quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale alla quale anch’essa è chiamata. L’organizzazione che dobbiamo attuare non è di tipo aziendale, ma di tipo evangelico».

Questo il messaggio di papa Francesco alla Curia in occasione del prossimo Natale. Nel suo nono discorso che rivolge ai membri del collegio cardinalizio e della Curia romana, il Papa chiede pertanto proprio questo: conversione e testimonianza di umiltà. E ha indicato tre modi per rendere «la via dell’umiltà una via concreta da mettere in pratica»: la partecipazione, la comunione e la missione, che sono alla base dello stile sinodale a cui è chiamata a convertirsi anche la Curia come tutta la Chiesa. Perchè, ha ribadito: «La sinodalità è lo stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana».

E ha incentrato tutto il discorso a spiegare anzitutto l’importanza fondamentale della testimonianza e dell’umiltà che la Curia deve dare: «Se la Parola di Dio ricorda al mondo intero il valore della povertà, noi, membri della Curia, per primi dobbiamo impegnarci in una conversione alla sobrietà. Se il Vangelo annuncia la giustizia, noi per primi dobbiamo cercare di vivere con trasparenza, senza favoritismi e cordate. Se la Chiesa percorre la via della sinodalità, noi per primi dobbiamo convertirci a uno stile diverso di lavoro, di collaborazione, di comunione. E questo è possibile solo attraverso la strada dell’umiltà».

Papa Francesco ricorda così che «l’umiltà è la grande condizione della fede» e che il Natale è il tempo in cui si deve avere il coraggio «di togliersi la propria armatura, di dismettere i panni del proprio ruolo, del riconoscimento sociale, del luccichio della gloria di questo mondo, e assumere la sua stessa umiltà», che è quella «del Figlio di Dio, che non si sottrae all’umiltà di “scendere” nella storia facendosi uomo». E che quindi se si dimentica «l’umanità» si vive «solo degli onori delle nostre armature». Si è allora rivolto alla Curia chiedendo ancora una volta di allontanare quella pericolosa tentazione della mondanità spirituale «che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità».

Umiltà o superbia?
«Non è facile capire cosa sia l’umiltà» dice Francesco, perché è «il risultato di un cambiamento che lo Spirito stesso opera in noi attraverso la storia che viviamo» e per far capire ai curiali prende ad esempio la figura biblica di Naaman il Siro (cfr 2 Re 5) che era un generale e godeva, all’epoca del profeta Eliseo, di una grande fama. «Ma insieme con la fama, la forza, la stima, gli onori, la gloria, quest’uomo è costretto a convivere con un dramma terribile: è lebbroso. La sua armatura, quella stessa che gli procura fama, in realtà copre un’umanità fragile, ferita, malata» e Naaman comprende una verità fondamentale che «non si può passare la vita nascondendosi dietro un’armatura, un ruolo, un riconoscimento sociale – spiega il Papa – arriva il momento, nell’esistenza di ognuno, in cui si ha il desiderio di non vivere più dietro il rivestimento della gloria di questo mondo, ma nella pienezza di una vita sincera, senza più bisogno di armature e di maschere». Allora l’umiltà è per prima cosa «comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità». Se Naaman avesse continuato solo ad accumulare medaglie da mettere sulla sua armatura – continua il Papa alla fine sarebbe stato divorato dalla lebbra: apparentemente vivo, sì, ma chiuso e isolato nella sua malattia. Cerca perciò «ciò che possa salvarlo e non ciò che lo gratifica nell’immediato».
«Il Profeta usa quindi un’immagine suggestiva che ben descrive la superbia: «Essa – dice – è come paglia. Allora, quando arriva il fuoco, la paglia diventa cenere, si brucia, scompare. E ci dice anche che chi vive facendo affidamento sulla superbia si ritrova privato delle cose più importanti che abbiamo: le radici e i germogli». «Le radici – spiega Francesco – dicono il nostro legame vitale con il passato da cui prendiamo linfa per poter vivere nel presente. I germogli sono il presente che non muore, ma che diventa domani, diventa futuro. Stare in un presente che non ha più radici e più germogli significa vivere la fine. Così il superbo, rinchiuso nel suo piccolo mondo, non ha più passato né futuro, non ha più radici né germogli e vive col sapore amaro della tristezza sterile che si impadronisce del cuore come “il più pregiato degli elisir del demonio”».

Ricordare e generare: la base dell’umiltà
L’umile vive costantemente guidato da due verbi afferma Francesco: «ricordare e generare, frutto dalle radici e dei germogli».
«Ricordare – afferma il Papa – significa etimologicamente “riportare al cuore”. La vitale memoria che abbiamo della Tradizione, delle radici, non è culto del passato, ma gesto interiore attraverso il quale riportiamo al cuore costantemente ciò che ci ha preceduti, ciò che ha attraversato la nostra storia, ciò che ci ha condotti fin qui. Ricordare non è ripetere, ma fare tesoro, ravvivare e, con gratitudine, lasciare che la forza dello Spirito Santo faccia ardere il nostro cuore, come ai primi discepoli (cfr Lc 24,32).
Ma affinché il ricordare non diventi una prigione del passato, per papa Francesco c’è bisogno di un altro verbo: generare.
L’umile, infatti, «ha a cuore anche il futuro, non solo il passato, perché sa guardare avanti, sa guardare i germogli, con la memoria carica di gratitudine. L’umile genera, invita e spinge verso ciò che non si conosce». Invece il superbo – ripete – si irrigidisce e si chiude nella sua ripetizione, si sente sicuro di ciò che conosce e teme il nuovo perché non può controllarlo, se ne sente destabilizzato… perché ha perso la memoria. L’umile accetta di essere messo in discussione, si apre alla novità e lo fa perché si sente forte di ciò che lo precede, delle sue radici, della sua appartenenza. A differenza del superbo, sa che né i suoi meriti né le sue “buone abitudini” sono il principio e il fondamento della sua esistenza; perciò è capace di avere fiducia».
«Tutti noi – afferma così Francesco – siamo chiamati all’umiltà perché siamo chiamati a ricordare e a generare, siamo chiamati a ritrovare il rapporto giusto con le radici e con i germogli. Senza di essi siamo ammalati, e destinati a scomparire». Ed è Cristo, che venendo nel mondo attraverso la via dell’umiltà, «ci apre una strada, ci indica un modo, ci mostra una meta».

Sinodalità: lo stile a cui dobbiamo convertirci
Per papa Francesco il clericalismo è sempre la tentazione che serpeggia quotidianamente in mezzo a noi e ci 1fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire».
Il Sinodo è invece «l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio, e pertanto discepoli che ascoltano e, proprio in virtù di questo ascolto, possono anche comprendere la volontà di Dio, che si manifesta sempre in maniera imprevedibile»: «La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana».
Durante l’apertura dell’assemblea sinodale il Papa aveva usato tre parole-chiave: partecipazione, comunione e missione. Queste stesse parole sono oggi riproposte ai membri del Collegio cardinalizio e della Curia: tre esigenze che vorrei indicare come stile di umiltà a cui tendere qui nella Curia. Tre modi per rendere la via dell’umiltà una via concreta da mettere in pratica.

Partecipazione, comunione, missione
Innanzitutto la partecipazione: «Sarebbe importante che ognuno si sentisse partecipe, corresponsabile del lavoro senza vivere la sola esperienza spersonalizzante dell’esecuzione di un programma stabilito da qualcun altro. Rimango sempre colpito quando nella Curia incontro la creatività, e non di rado essa si manifesta soprattutto lì dove si lascia e si trova spazio per tutti, anche a chi gerarchicamente sembra occupare un posto marginale». Papa Francesco afferma pertanto che: «L’autorità diventa servizio quando condivide, coinvolge e aiuta a crescere».
La seconda parola è comunione. E ricorda che «la complicità crea divisioni, fazioni e nemici» mentre «la collaborazione esige la grandezza di accettare la propria parzialità e l’apertura al lavoro in gruppo, anche con quelli che non la pensano come noi. Nella complicità si sta insieme per ottenere un risultato esterno. Nella collaborazione si sta insieme perché si ha a cuore il bene dell’altro e, pertanto, di tutto il Popolo di Dio che siamo chiamati a servire». Un atteggiamento di servizio che esige la magnanimità e la generosità per riconoscere e vivere con gioia la ricchezza multiforme del Popolo di Dio, «e senza umiltà questo non è possibile» afferma Francesco.
La terza parola è missione che «salva dal ripiegarci su noi stessi». Chi è ripiegato su sé stesso «guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è aperto al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene». Mentre «la persona con cuore missionario sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo. La missione ci rende vulnerabili, ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre di nuovo la gioia del Vangelo».

I caratteri di una Chiesa umile
In questo Natale 2021 Francesco ha voluto così richiamare ai caratteri fondamentali che deve avere la Curia come tutta la Chiesa, dopo che, nel corso dei nove discorsi ad essa rivolti in occasione del Natale, aveva richiamato i suoi collaboratori «a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la missione e aveva presentato, come aveva fatto nel 2014 con «il catalogo delle malattie curiali»; e poi nel 2015 gli “antibiotici curiali” con un «catalogo delle virtù necessarie» per chi presta servizio in Curia, e ancora dopo, nel 2016, scegliendo come argomento la riforma della Curia Romana. Oggi, «facendo memoria della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli» ha chiesto di «lasciarsi evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù», ricordando quella mondanità spirituale che aveva stigmatizzato con il teologo gesuita francese Henri de Lubac. Perchè «solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza. Siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità».
Partecipazione, missione e comunione sono pertanto per il Papa i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa. E a conclusione Francesco ha voluto citare la fonte di queste riflessioni: «Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva. […] Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri […]; è difficile, o piuttosto impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica, la traccia adorabile dell’umiltà di Dio» (Meditazioni sulla Chiesa, 352).


AUGURI DEL PAPA AI DIPENDENTI VATICANI


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