domenica 21 novembre 2010
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Pochi spiccioli, centesimi più che euro, e la somma, alla fine, non riesce a varcare la soglia del valore simbolico. Ma sono soldi che valgono infinitamente più di quanto pesano se ai piatti della bilancia l’unità di misura non è altro che una carità a sua volta senza misura. La raccolta di fondi che tutti i mercoledì viene effettuata per i dipendenti della «Firema», un’azienda elettromeccanica del Casertano in amministrazione controllata, è solo una povertà che passa di mano: a deporre le monete nel salvadanaio è un gruppo di immigrati, operai a giornate, «vu’ cumprà», gente che del nostro vocabolario meglio di tutte conosce la parola arrangiarsi.La storia della fabbrica, che costruisce e cura la manutenzione di vagoni ferroviari, somiglia a quella di tante altre in questo tempo di crisi: commesse che non arrivano, bloccate o «congelate» da problemi di liquidità; tensione con i vertici, occupazioni, un blocco volante sull’autostrada del Sole, fino alla scalata sul tetto dell’azienda dove un gruppo di operai è rimasto per tre giorni. In Campania non esiste oggi – a parte le proteste e i cortei contro l’emergenza rifiuti – un rituale più consueto. Anche le iniziative di sostegno – sia pure nella generosità delle intenzioni – hanno seguito la stessa prassi, con appelli e volantini che passano di mano in mano e accanto quasi sempre un punto-raccolta che invita a manifestare una forma di vicinanza concreta.La prima a mobilitarsi è stata la Chiesa locale. Le parrocchie hanno organizzato collette e favorito la consegna di pacchi alimentari da parte del Banco delle opere di carità. Una strada anche questa consueta perché le porte di ogni comunità ecclesiale hanno i battenti sempre aperti sul versante della carità. Ma da queste antiche vie, sulle quali la solidarietà continua a consumare i suoi passi, può accadere di andare incontro a percorsi inaspettati; ed è stato così che la trama di generosità è andata a estendersi al «movimento dei migranti e rifugiati di Caserta», più che un’associazione un lembo quasi estremo di quella galassia che si trova spesso a ruotare intorno all’asse della pura sopravvivenza. Un operaio è andato nel quartier generale degli immigrati e ha raccontato l’esperienza sua e dei compagni di lavoro (si spera non ex) della «Firema». In fatto di occupazione, è certo che l’auditorio fosse più preparato sui posti di lavoro che mancano, piuttosto che su quelli lasciati per strada a causa della crisi: ma quanto a precarietà, nell’uno e nell’altro caso, nessuno era in grado di comprendersi meglio.Anche per questo, forse, l’incontro non è stato animato da un serrato dibattito né si è concluso con un bel documento. La solidarietà è una forma di linguaggio universale, con una particolarità che ne rende ancora più comprensibile la grammatica: viene assimilata meglio da chi già ne fa uso. A suo modo crea una sorta di «dipendenza», fino a sbaragliare il campo e travolgere i confini del «dare» e dell’«avere», e mettere in atto un circolo virtuoso nel quale anche la generosità arriva a mischiare le sue carte. Se è il bisogno a passare di mano diventa, infatti, difficile, e del tutto ininfluente, tracciare il verso in cui la solidarietà si dirige. È solo semplice carità in atto, che fa il suo corso e che s’insinua per tenere da parte egoismi e lotte, pronte, amaramente, a divampare anche tra i poveri.La «colletta» alla «Firema» vale, in questo senso, molto più di un edificante fatto di cronaca: la condivisione è non solo il primo passo verso tutti i problemi legati all’integrazione, ma concretamente ne rappresenta il fondamento. Non esiste un percorso più lineare, perché automaticamente stabilisce le giuste gerarchie: prima viene l’uomo. E di conseguenza, è la solidarietà a guidare la fila di ogni altra esigenza.
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