lunedì 23 giugno 2014
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Caro direttore,

grazie per il bellissimo intervento del professor Mario Melazzini su "Avvenire" del 21 giugno. Come sempre il nostro quotidiano è in prima linea come sensibilità verso la vita umana, e il medico e paziente Melazzini, nella sua sofferenza personale, è un modello e una guida per tutti. Aggiungo solo che l’art. 32 della Costituzione consente a chiunque di rifiutare coscientemente un trattamento, e comunque per i malati terminali le cure palliative e gli Hospice hanno oggigiorno una tale diffusione che una morte dignitosa è ormai assicurata a tutti. Papa Pio XII diceva agli anestesisti nel 1957 che somministrare analgesici in dosi proporzionate al dolore è lecito, e non è eutanasia neanche se così si dovesse abbreviare la vita; lecito sì, ma a condizione di lasciare al malato quella coscienza e quella contattabilità necessarie perché egli/ella possa attendere agli ultimi suoi doveri familiari, amministrativi e religiosi. Questo è il modello più umano che possa esistere di vera morte dignitosa, ed è già garantito in ogni ospedale italiano. Il professor Melazzini ha pienamente ragione quando scrive che il problema è l’inefficace presa in carico davanti a situazioni di abbandono e solitudine. Perché gli insegnanti non propongono a bambini, adolescenti e adulti nella scuola momenti di compagnia per alleviare la solitudine di chi è abbandonato in Rsa, in Hospice o in altre strutture? O per far compagnia a disabili che magari hanno la loro stessa età? Un gesto del genere, anche solo per un’ora alla settimana, cambierebbe la nostra società più di tanti discorsi e dibattiti.

Fabio Sansonna, medico Monza

 
Condivido il suo giudizio sulla qualità della testimonianza di uomo e di medico che continuiamo a ricevere da Mario Melazzini, caro dottor Sansonna. E faccio pienamente mia la domanda che chiude la sua lettera. La faccio mia e la rilancio, dettagliandola e moltiplicando gli interrogativi: perché non organizzare e proporre all’interno delle attività scolastiche anche un’ora (o più) di «vita solidale»? Perché non fare di un simile insegnamento un’occasione per mettere in relazione in modo vivo e generoso gli studenti con la propria comunità di appartenenza? Perché, insomma, non "inventare" un’ora (o più) che coinvolga persone di età e condizioni diverse – bambini, adolescenti, adulti, anziani, abili, disabili, malati… – e che crei "vortici" positivi di formazione, di amicizia, di sostegno reciproco? Sono figlio di insegnanti e so di che cosa parlo perché ho visto percorrere in modo appassionato e – per così dire – pionieristico, ma non isolato, strade simili a questa. Conosco insegnanti che, soprattutto ma non solo nelle scuole superiori, operano in questa maniera di propria iniziativa, al di fuori dell’orario scolastico. So pure di istituti scolastici statali e paritari che nei propri progetti formativi includono anche la possibilità di attività di volontariato. E però a livello generale – nell’intera scuola pubblica, quella statale e quella paritaria – manca un impegno sistematico e curricolare in questo senso. Tutto è affidato alla creatività buona (e a volte esausta) di insegnanti e presidi e alla (ben possibile) risposta positiva dei ragazzi e delle ragazze. Anche qui parlo per esperienza diretta: una delle mie due figlie, oggi ventiquattrenne, negli anni di liceo al "Virgilio" di Roma venne liberamente coinvolta nella vita di una casa-famiglia per bambini in condizioni di disagio, e ricorda ancora oggi con affetto e gratitudine - e mia moglie e io assieme a lei - la giovane insegnante (una bravissima e precarissima supplente annuale) che ebbe il coraggio e la contagiosa intelligenza di promuovere la cosa.
 
So benissimo, come e quanto lei, caro amico, che fuori dalla scuola c’è spazio e modo per vivere esperienze di condivisione e di volontariato, ma so anche che la scuola è tempo e spazio di tutti e per tutti. E so che si è ragionato per anni, anche per l’impulso dato dal lucido impegno di un esperto del calibro di Luciano Corradini, (e mi dispiace enormemente che oggi non se ne parli quasi più) di come finalmente attuare l’insegnamento dell’«educazione civica» nella scuola italiana. Credo che una parte significativa del programma di quella sospirata e utilissima materia potrebbe e dovrebbe essere sviluppata in forma di «vita solidale» (per questo, poco più su, scrivevo «un’ora (o più)»). La solidarietà – come c’insegna Papa Francesco – è l’umana continuazione della tenerezza di Dio per noi, delle "carezze" di cui tutti abbiamo bisogno e di cui ognuno può essere capace. Ma non s’impara a parole, s’impara sperimentandola. E chi la sperimenta non smette più di viverla qualunque cosa faccia dei suoi giorni, ovunque diriga i suoi passi. Dio sa, ognuno di noi sa, quanto l’Italia e il mondo abbiano bisogno di cittadini così, di uomini e donne così.

 

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