Non diventare più deboli
sabato 21 gennaio 2023

Non si è ancora capito come il governo intenda intervenire sulla materia delle intercettazioni giudiziarie, risulta perciò impossibile azzardare ora una valutazione nel merito, a meno di non voler istruire un processo alle intenzioni, che è quanto di più antigiuridico esista. Fa discutere e pensare, certo, l’ipotesi del sottosegretario Delmastro di un «intervento sui giornali», ancora tutto da definire. Di sicuro il ministro Carlo Nordio, che per tutta la vita ha fatto il magistrato inquirente, sa bene quanto siano importanti le intercettazioni come strumento investigativo (tuttavia non l’unico strumento), lui stesso le ha utilizzate in importanti inchieste. Sembra perciò una mezza caricatura descriverlo come un nemico delle Procure, al netto di quella frase diversamente formulabile sulla politica che non deve essere «supina» ai pm antimafia. Sarebbe bastato, del resto, ricordare il principio della separazione tra i poteri dello Stato e l’autonomia di ciascuno di essi.

Il guardasigilli, inoltre, ha assicurato che per mafia, terrorismo e reati «satelliti» (quindi, si spera, anche corruzione, riciclaggio e via delinquendo) le intercettazioni non subiranno alcuna limitazione. A ben vedere, anche la polemica sui mafiosi che non usano il cellulare è un po’ strumentale, almeno riguardo ai boss latitanti: perché uno che insegui da 30 anni, se puoi metterlo sotto intercettazione sai dov’è e se sai dov’è lo vai a prendere. Non a caso Messina Denaro, pur avendo ben due cellulari, per le sue comunicazioni usava i “pizzini”. Come Riina e come Provenzano. Molto utile, invece, almeno nell’ultima fase delle indagini, la localizzazione dei telefoni del vero Andrea Bonafede (il prestanome del capomafia), che era altrove mentre risultava essere in clinica, e dei familiari del boss, che spegnevano i loro telefoni in determinati momenti. Tornando a Nordio, non resta che augurarsi, da parte sua, una riforma coerente con la sostanza di quanto affermato alle Camere e di quanto praticato come giudice istruttore, sostituto procuratore e procuratore aggiunto di Venezia. Più coerente, magari, di quanto non si sia dimostrato – rispetto invece al suo garantismo – sul cosiddetto “decreto rave”, che confonde il diritto penale con la gestione dell’ordine pubblico (per quanto riguarda quei raduni, che erano già illegali) e, soprattutto, finge di accogliere le osservazioni della Corte costituzionale rendendo in realtà l’ergastolo ostativo ancora più ostativo.

Eppure il garantismo non è il contrario del giustizialismo, perché mentre il secondo è una concezione vendicativa della giustizia (e quindi non compatibile, ahinoi solo teoricamente, con lo stato di diritto e con la democrazia liberale) il primo – prendiamo in prestito l’ultima parte della definizione contenuta nel libro “Garantismo” del professor Vincenzo Roppo – «è la nostra stessa civiltà, nei suoi valori politici e culturali più alti». Colpisce, perciò, che in Italia affrontare il tema dell’abuso delle intercettazioni (soprattutto della loro divulgazione indiscriminata, perfino se penalmente irrilevanti, ma anche dell’utilizzo dei trojan, che 24 ore su 24 penetrano ogni aspetto della vita del controllato e di chiunque lo frequenti) significhi automaticamente scatenare una battaglia tra fazioni.

Capitò anche ad Andrea Orlando del Pd, quando era ministro della Giustizia. Come se davvero chi è a favore dei diritti debba essere a favore anche della criminalità e, viceversa, chi s’impegna contro le mafie debba essere nemico dei diritti. Una vera assurdità, che meriterebbe di uscire da certi teatrini politici e mediatici per essere finalmente trasformata in una consapevolezza collettiva: la legalità si afferma, oltre che nella prevenzione e nella repressione del crimine, anche nel rispetto dei diritti (incluso ovviamente il diritto di cronaca) e delle garanzie. E nell’affermazione della legalità non ci si deve dividere, altrimenti si diventa più deboli.

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