venerdì 10 marzo 2023
Sarà vero che le big firm internazionali di consulenza indeboliscono la capacità di fare impresa, riducono la libertà di azione dei Governi e, in definitiva, commissariano le nostre economie?
Ma il dilagare delle società di consulenza mortifica le aziende
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Sarà vero che le big firm internazionali di consulenza indeboliscono la capacità di fare impresa, riducono la libertà di azione dei Governi e, in definitiva, commissariano le nostre economie? La domanda è provocatoria e inaggirabile. Domenica scorsa, Luigino Bruni ne ha ragionato approfonditamente su queste pagine di “Avvenire”, andando alla radice del fenomeno. Una risposta sta anche nell’analisi di Mariana Mazzucato (con Rosie Collington) di cui si legge nel libro The Big Con (Penguin Random House) di cui si sta parlando, soprattutto dopo un’ampia intervista dell’accademica italiana al “Financial Times” (13 febbraio).

Di certo l’ingresso sempre più massiccio delle società di consulenza internazionali nelle stanze dei bottoni di aziende ed enti pubblici suscita legittimi interrogativi. Si badi, la consulenza strategica in certi casi è utile, perfino necessaria (si pensi a un’operazione straordinaria). Ma a volte finisce per trasformarsi in uno status permanente, con progetti costosi trascinati per anni, senza che il cliente ne tragga benefici tangibili. Qui si rafforza la domanda (di Mazzucato ma non solo): la consulenza è sempre utile? O talvolta, nella migliore delle ipotesi, è una cura palliativa? Il tema è serio perché riguarda le responsabilità manageriali, la cultura del fare impresa e, nel caso della politica, perfino la sua autonomia.

L’abuso della classe dirigente di società di consulenza private mette in discussione l’ampiezza e la legittimità del concetto di “delega”. Un buon manager è colui che sa circondarsi di competenze chiave per il successo del business. Ma l’indirizzo strategico non può essere delegato a terzi, deresponsabilizzandosi nei confronti dei propri portatori d’interessi. Nel caso delle imprese non è raro vedere affidate a consulenti esterni attività svolgibili in casa. Così precludendo ai propri “talenti interni” opportunità di crescita. Perché succede? Carenza di organizzazione, di cultura manageriale, abitudine, relazioni pregresse e perfino pigrizia (a volte spacciata per risk management). Così organizzazioni aziendali, assuefatte, tendono a perdere know-how, che passa alle società di consulenza.

Non ne è immune la politica. Consulenti privati, da anni, lavorano anche stabilmente per i Governi. Si pensi al caso della famosa McKinsey, che nel 2021 collaborò con il governo francese all’estensione del piano vaccinale anti-Covid. Mentre in Italia ha contribuito a elaborare parte della scrittura del recovery plan.

Giusto o sbagliato? Dipende. Ben venga che il settore pubblico sia contaminato dalle competenze e dalle buone pratiche di quello privato. Ma tra gli obiettivi di chi guida un Paese non può non esserci valorizzare e organizzare le funzioni della macchina pubblica, dare priorità politiche guidando processi, individuandone i responsabili. Creare la cultura dell’accountability pubblica, termine inglese spesso abusato, che, in definitiva, unisce il principio di responsabilità a quello dell’appartenenza. Responsabilità verso i cittadini, nell’amministrazione della cosa pubblica, appartenenza alla comunità che si amministra (si chiami città, regione, nazione) che consente di considerarsi dei delegati a tutti gli effetti. Con il dovere di fare delle scelte.

I dati di affluenza ai seggi delle ultime regionali sono lì a dirci che l’assenza di accountability politica oggi è realtà. Il rapporto fiduciario tra cittadini e politica è al minimo. Dal già poco virtuoso concetto di “delega in bianco”, intesa come voto poco informato e superficiale, si va verso un totale disinteresse verso l’atto stesso di delega. Proprio come un azionista che disertasse l’assemblea e rinunciasse alle sue prerogative di nomina degli amministratori.

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