Dialogo tra sordi fra Governo e Nord
venerdì 1 febbraio 2019

Come un dialogo tra sordi. È ormai netta la sensazione di crescente incomunicabilità tra il cuore settentrionale del Paese e il governo gialloverde, certificata dal nulla di fatto emerso dopo l’ultima trasferta milanese del premier Conte. Il Nord Italia e i vertici dell’esecutivo viaggiano lungo parallele niente affatto convergenti, e questa non è una buona notizia nella giornata in cui si ufficializza la terza recessione dal 2007 a oggi.

Il problema è sia di merito che di metodo. Il mondo produttivo del Nord Italia da tempo segnala un progressivo isolamento subìto da parte di chi a Roma sta nella stanza dei bottoni. Un isolamento che si è trasformato e ha prodotto un inedito movimentismo nella seconda parte del 2018, rappresentato dalle piazze di Torino per la Tav e dall’asse Milano-Cortina per la candidatura olimpica ai Giochi del 2026, temi su cui l’esecutivo procede da inizio legislatura con un certo imbarazzo. Il punto è proprio questo: il Nord Italia, da vent’anni a questa parte, lega il proprio sviluppo economico e il proprio percorso di modernizzazione a obiettivi di lungo periodo, alla ricerca costante di una "visione" condivisa (portata avanti anche da amministrazioni politiche di colore diverso) in grado di assecondare quel governo del "fare" che è nel dna di questi territori. Così è nata Torino 2006, così è stato pensato e realizzato, tra non poche difficoltà, Expo 2015, tutte tappe che hanno scandito un processo di crescita internazionale delle regioni settentrionali e che hanno avuto un indiscutibile successo di cui ha beneficiato, in termini di immagine, tutto il sistema Paese.

Al contrario, il governo Conte oggi ha assoluta necessità di incidere sul breve e brevissimo periodo, combattendo tutti i giorni la battaglia del consenso tra i due riottosi partner di governo. Dopo aver spostato fondi ed energie sui provvedimenti- simbolo del 'contratto' tra Lega e M5s, non sembra esserci tempo e spazio per ascoltare rivendicazioni che arrivano da corpi intermedi (le associazioni territoriali di Confindustria, i sindacati, ma in certo modo anche gli stessi sindaci e governatori) ritenuti almeno inizialmente estranei alla base elettorale di questa maggioranza.

Due cose più delle altre stanno surriscaldando la protesta del Nord: il diffondersi di una cultura anti-industriale, che non solo non riconosce il valore della borghesia produttiva, ma tende a sostituirne il ruolo con improvvisati visionari e con politiche di tipo assistenzialistico considerate provinciali e di corto respiro; in secondo luogo, e di conseguenza, il pervasivo clima di 'ostilità', quando non di 'odio', come ha sottolineato il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, verso quello che una volta avremmo definito il 'ceto medio' che rischia di lacerare a lungo andare tutto il tessuto sociale.

Non è un fenomeno da sottovalutare e nemmeno si può pensare di affrontarlo secondo i consolidati copioni mediatici, l’ultimo dei quali prevede oggi la visita-blitz del vicepremier Salvini nel cantiere dell’Alta Velocità a Chiomonte, in Val Susa. Si badi bene: non è un problema solo delle imprese, ma di tutti i lavoratori della piccola e media industria lombarda, veneta e piemontese, abituati da tempo a considerare l’azienda come un presidio di comunità fondamentale e oggi assai preoccupati rispetto alla deriva cui stiamo assistendo.

Paradossalmente, è più un problema per la Lega (che una volta si chiamava Lega Nord) che per il Movimento 5 Stelle. Soprattutto nel Nord Est, il disagio con cui la delicata tematica dell’autonomia è stata relegata (al di là delle promesse e di qualche cerimonia pubblica) in fondo all’agenda di governo, è ormai evidente ai protagonisti del dibattito regionale e locale. Il fatto che nulla stia accadendo di quanto promesso (trasferimento di fondi da Roma, autonomia finanziaria, interi capitoli di spesa dalla scuola alla sanità da gestire in modo indipendente) semplicemente conferma che il Carroccio non è più, da tempo, quel 'sindacato di territorio' che, nel bene e nel male, aveva cercato di essere ai tempi della cosiddetta Seconda Repubblica. La metamorfosi verso il sovranismo nazionalista è forse compiuta, ma molti sostenitori del federalismo 'lumbard' rischiano di restare orfani.

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