sabato 23 marzo 2019
Come fare con le persone che hanno combattuto o commettono atti di terrorismo in patria? Non solo sicurezza: rendere apolidi è questione etica, morale e giuridica
Shamina Begum, l'ex cittadina britannica partita per il Daesh a 15 anni, e ora apolide

Shamina Begum, l'ex cittadina britannica partita per il Daesh a 15 anni, e ora apolide

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Apparentemente, è una soluzione semplice e geniale. E, in tempi di "cattivismo" imperante, sicuramente anche molto popolare. La decisione britannica di togliere la cittadinanza ai sudditi della regina che sono andati nel Levante a combattere per Daesh (o comunque a sostenerlo) risolve alla radice una delle principali preoccupazioni delle forze politiche e di sicurezza europee: cosa fare dei jihadisti di ritorno. Il caso più eclatante è quello di Shamima Begum, una ragazza di fede musulmana partita 15enne nel 2015 con due coetanee per unirsi al Daesh in Siria. Ora, a 19 anni, con un neonato che è morto poco dopo la decisione di Londra, voleva fare ritorno e si trova bloccata in un campo curdo senza più il passaporto britannico, revocatole sebbene il suo caso abbia suscitato emozione nella sua ex patria. Il laburista Corbyn l’ha difesa, il ministro dell’Interno Javid (figlio di pachistani) è stato però irremovibile («Dobbiamo mettere al primo posto la sicurezza del Regno Unito», ha detto) suggerendo poi che la giovane chieda la cittadinanza bengalese, come la madre, ma il Bangladesh si è subito opposto.

Quello dei foreign fighter è un problema oggettivamente spinoso, dato il timore che chi abbia combattuto in Siria e Iraq per lo Stato Islamico o per le varie formazioni qaediste possa, una volta tornato in patria, compiere attentati o creare cellule terroristiche. E considerando che arrestarli, processarli e tenerli in galera risulta spesso un compito lungo e complicato. Senza trascurare infine il fatto che le prigioni europee e mediorientali sono ormai chiamate le "università del jihad", visto il significativo numero di musulmani che si radicalizzano dietro le sbarre.

Togliere loro la cittadinanza permette quindi di impedirne il ritorno. Lasciandoli nella mani dei curdi (se sono fortunati), delle forze armate siriane e irachene o, se proprio la sorte gli è avversa, delle milizie sciite. Pazienza, se la sono cercata. Se sei uomo e sei andato a uccidere, minacciare, torturare è nella logica delle cose che – per la legge del taglione – tu finisca torturato e ucciso. Se sei donna e sei andata in sposa di jihadisti che hanno rapito e violentato le donne delle altre comunità, ora ti lasciamo in pasto a chi ti stuprerà finché reggi gli abusi. In fondo, sposando la causa del califfato islamico è come se avessero volontariamente rinunciato alla loro cittadinanza europea.

Un deterrente efficiente anche per il futuro. Indubbiamente efficace, veloce, sicuro. Peccato sia anche inumano e vada contro secoli di riflessione etica, morale e giuridica europea. E che apre la porta a un meccanismo di rimozione del "nemico sociale" che risulta storicamente pericoloso oltre che giuridicamente opinabile. Già ai tempi della Grecia classica togliere la cittadinanza, rendere apolide, era considerato forse la punizione peggiore, poiché lasciava "nudo" l’individuo, senza alcuna protezione e privato di ogni diritto a fare parte di una comunità riconosciuta.

Hannah Arendt nel suo saggio Le origini del totalitarismo parla di Heimatlose, colui che è allo stesso tempo privo di una patria, di cittadinanza, di un posto nel mondo e del diritto a godere di diritti. Non a caso i despoti hanno sempre amato la pratica di privare della cittadinanza i cittadini che si opponevano al loro potere. In Iraq, Saddam Hussein la praticava contro gli oppositori, in special modo contro i curdi. Un intellettuale che fra i primi ha cercato di dare un senso libertario – senza riuscirvi – al nuovo Iraq a seguito all’invasione anglo-americana del 2003 era proprio un curdo reso apolide, poi accolto dalla Svezia, che sottolineava la crudeltà di ridurre una persona a essere senza casa. Senza nazione. Senza passaporto. Primo passo per privarli di ogni diritto. Anche quello a un’esistenza riconosciuta.

Proprio per questo la nostra Costituzione, nata all’indomani del fascismo che con le leggi razziali aveva aperto la porta alla revoca della cittadinanza per gli ebrei italiani, stabilisce all’articolo 22 che non si può privare un cittadino italiano della propria cittadinanza e della propria capacità giuridica per motivi politici. Il recente decreto sicurezza voluto da Salvini ha introdotto la possibilità che il passaporto italiano sia ritirato – con decreto del presidente della Repubblica – a chi abbia una condanna passata in giudicato per reati di terrorismo. Si tratta di una norma controversa che comunque esclude chi abbia acquisito la cittadinanza per ius sanguinis e per adozione prima della maggiore età. È di ieri la prima proposta di revoca per un marocchino condannato per terrorismo, divenuto italiano nel 2015.

Il principio che la Gran Bretagna vuole adottare, ma a cui guardano molti altri Stati europei, non è solo quello di togliere la cittadinanza a immigrati che ne abbiano già un’altra, originaria, e che poi abbiano nel tempo acquisito anche quella del Paese in cui vivono. Questa ipotesi, nei fatti giuridicamente difficile da mettere in pratica, appare certo meno brutale di quella di rendere dei cittadini europei apolidi. Una scorciatoia per lavarsi le mani da ogni problema di tutela giuridica: "noi" infatti non possiamo consegnare i "nostri cittadini" nelle mani di paesi che praticano la tortura e la pena di morte. Quindi è necessario renderli non cittadini.

Anche nel caso si tratti di minorenni irretiti dalla propaganda jihadista o che hanno seguito il proprio compagno per amore. Si badi bene: non si vuole negare o sminuire la bestiale brutalità degli atti compiuti da Daesh, né negare che chi ha sbagliato debba pagare e pagare per intero. Ma l’idea del togliere la cittadinanza a chi si radicalizza e compie atti violenti distrugge anche ogni idea – per altro sostenuta dalla stessa Gran Bretagna – di affiancare la parte repressiva contro il jihadismo a programmi di de-radicalizzazione e contro-radicalizzazione. Che sono già attivi e che sembrano dare risultati interessanti, proprio quando vengono coinvolti ex-jihadisti che possono testimoniare l’errore (e l’orrore) da essi compiuto.

Ma l’idea di punire il reo rendendolo apolide è inaccettabile, al di là della sua perversa seduttività, anche da altri punti di vista. Perché usarla solo per chi si unisce ai movimenti jihadisti? Forse che chi traffica nel commercio internazionale di organi, spesso ammazzando per ottenerli, non è meno esecrabile? O gli assassini mafiosi che negano l’autorità del nostro stato sul suo stesso territorio? Chi decide quanto colpevoli debbano essere i colpevoli? E chi decide il limite? Cacciare dalla comunità chi infrange le sue leggi, e non solo sanzionarlo, ha nella storia solo esempi tetri. Dittature e ideologie totalitarie che ritenevano che lo stato dovesse tutelarsi da ogni minaccia, compresa quella di chi semina il dubbio che le scelte compiute siano illegittime. I nemici del popolo insomma.

Per chi come me lavora da decenni in Medio Oriente non vi può essere alcuna simpatia per jihadisti e aspiranti jihadisti, seguaci della forma più aberrante e distorta dell’islam sunnita, propagatori e giustificatori di una violenza inaudita che ha spazzato via tanto di quel che amavo di quel mondo. Eppure, nonostante abbiano intenzionalmente rigettato ogni idea di umanità con le loro azioni, essi rimangono esseri umani. Uomini e donne che devono essere giudicati secondo giustizia. Gli inglesi durante la rivolta dei Sepoys in India del 1858 resero celebre il detto: «Mostriamo a questi selvaggi che sappiamo essere più selvaggi di loro». Ecco, noi no. Oggi in Europa non possiamo né dirlo né tantomeno farlo in silenzio.

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