Gaza e la lezione di Francesco che non abbiamo saputo ascoltare
di Redazione
Un uomo claudicante, malato, di 88 anni, aveva denunciato le crudeltà che vediamo (e che erano già lì, sul campo) un anno e migliaia di morti fa

Ora che nella Striscia di Gaza sono stati ammassati almeno 60.000 corpi (secondo i dati forniti dal ministero della Sanità di Hamas), ora che il Washington Post ha pubblicato nomi e fotografie di 18.500 bambini e ragazzini uccisi, al ritmo di oltre uno all’ora («un’intera classe di bambini che scompare ogni giorno, da oltre due anni», ha commentato la direttrice esecutiva dell’Unicef), mentre stime indipendenti sottolineano come sia assai probabile che questi strazianti bilanci siano addirittura sottostimati, mentre la violenza ancora non si arresta, così come la carestia e la fame, e il piano di occupazione totale pare avanzare a marce forzate… è difficile non pensare a quanto inutilmente ci si sia fatti dare lezione non solo di umanità, ma di coraggio da un uomo claudicante, malato, di 88 anni, papa Francesco, che aveva denunciato queste crudeltà – che erano già tutte sul campo, esattamente lì, è solo cresciuta la loro mostruosa contabilità – un anno e migliaia di morti fa. Aveva parlato fin da subito con una chiarezza che i più hanno raggiunto timidamente solo molto più tardi, e alcuni neppure ora che un territorio grande come Milano, Barcellona e Parigi messe insieme, con i suoi ospedali, i suoi palazzi, le università, i bar e i ristoranti sul mare, è stato ridotto in massima parte a lugubre paesaggio lunare e a cimitero a cielo aperto, i cadaveri avvolti nei lenzuoli.
Era stato considerato da alcuni “poco opportuno”, se non peggio, confondendo l’opportunità con la sua grottesca, ipocrita, spesso interessata parodia, che è l’opportunismo. Credo che più d’uno dovrebbe chiedere scusa alla sua memoria per questo. Aveva rammentato con forza, il Papa, l’ovvio che troppo a lungo ha faticato a trovare voci e orecchi: che nessuna antecedente atrocità poteva rendere giustificabile né tollerabile la carneficina di inermi che ci si parava di fronte. Aveva evidenziato come non potesse neppure essere chiamata guerra, lui che di ogni guerra è stato infaticabile avversario. Nel corso dei sei anni in cui ho avuto l’onore di coadiuvarlo nel lavoro alla sua autobiografia, ho ricevuto diverse volte il dono di entrare in contatto con sentimenti ed emozioni di Francesco: l’ho visto appassionarsi, commuoversi, esprimere ammirazione e gratitudine, e molte volte sorridere. Ma ciò che mi torna alla memoria oggi sono soprattutto il suo dolore e l’indignazione – una sacrosanta rabbia, mi viene da dire – di fronte alla barbarie e alle innumerevoli vittime innocenti che i conflitti moltiplicano, e che ha avuto modo di incontrare a migliaia nei suoi viaggi: un esercito disarmato e sfregiato di vedove, orfani, esiliati, profughi, anziani, bambini.
Era stato considerato da alcuni “poco opportuno”, se non peggio, confondendo l’opportunità con la sua grottesca, ipocrita, spesso interessata parodia, che è l’opportunismo. Credo che più d’uno dovrebbe chiedere scusa alla sua memoria per questo. Aveva rammentato con forza, il Papa, l’ovvio che troppo a lungo ha faticato a trovare voci e orecchi: che nessuna antecedente atrocità poteva rendere giustificabile né tollerabile la carneficina di inermi che ci si parava di fronte. Aveva evidenziato come non potesse neppure essere chiamata guerra, lui che di ogni guerra è stato infaticabile avversario. Nel corso dei sei anni in cui ho avuto l’onore di coadiuvarlo nel lavoro alla sua autobiografia, ho ricevuto diverse volte il dono di entrare in contatto con sentimenti ed emozioni di Francesco: l’ho visto appassionarsi, commuoversi, esprimere ammirazione e gratitudine, e molte volte sorridere. Ma ciò che mi torna alla memoria oggi sono soprattutto il suo dolore e l’indignazione – una sacrosanta rabbia, mi viene da dire – di fronte alla barbarie e alle innumerevoli vittime innocenti che i conflitti moltiplicano, e che ha avuto modo di incontrare a migliaia nei suoi viaggi: un esercito disarmato e sfregiato di vedove, orfani, esiliati, profughi, anziani, bambini.
Il suo pensiero e i suoi sforzi sono stati con tutti loro sino all’ultimo, anche quando le sue condizioni si sono fatte talmente faticose che a volte pareva respirasse acqua. A Gaza, nella parrocchia a cui ha telefonato praticamente ogni giorno, pure quando la voce lo ha abbandonato, e che nel frattempo è stata scenario di altra morte e distruzione, avrebbe voluto andare perfino in quello stato, mi aveva raccontato ancora quest’anno, un sogno che la mente probabilmente sapeva essere impossibile ma a cui il cuore non riusciva a rinunciare. Ha continuato idealmente ad appoggiare la sua fronte sul muro di separazione in Cisgiordania, a Betlemme, come aveva fatto nel corso del suo storico viaggio in Terra Santa del 2014, quel muro da cui avevano provato inutilmente a tenerlo lontano («non volevano farmi andare, ma ci sono andato»). Così come, esattamente fino all’ultimo giorno prima di morire, non ha mancato di esprimere la sua vicinanza alla popolazione israeliana, e a quella del Libano, e della Siria, e alla martoriata Ucraina, al Congo, al Sud Sudan, al Myanmar.
Quando qualcuno mi domanda perché papa Francesco è stato molto amato non solo dai cattolici ma anche da chi non è credente o ha un’altra fede, e ancora lo è oggi, dopo la morte, per quel che mi riguarda rispondo: perché gli è stato riconosciuto di essere “credibile”. Sono la sua umana credibilità e il suo coraggio - la chiarezza e intransigenza nella lotta per la pace e la fratellanza umana, su tutto - che hanno fatto di lui un punto di riferimento per “gli uomini e le donne di buona volontà”, in ogni parte del mondo. Una credibilità che, come non rilevarlo, appare merce piuttosto rara tra i leader di oggi… tanto che a volte viene amaramente da commentare che ci acconteremmo che il potere, per quanto poco credibile, perlomeno non fosse criminale.
Allo stesso modo, Francesco pare rammentare a tutti noi che persino le leadership criminali hanno ancora bisogno di una cosa, ne hanno bisogno come l’aria: l’acquiescenza. È questo il nostro potere e la nostra responsabilità, senza possibilità di alibi. «Per annientare un uomo o una donna», dice nella sua autobiografia, «basta ignorarli. L’indifferenza è aggressione. L’indifferenza può uccidere». Per questo Francesco in mille occasioni ha invitato a non essere silenti, anzi proprio a «fare chiasso». C’è un recente, bellissimo, inquietante film, La zona d’interesse, che racconta la vita che scorre placida e lieta, tra fiori coltivati e bambini che giocano, puliti e pettinati, proprio al di là del muro di un campo di concentramento, ottantadue anni fa. Ciò che accade oggi, a Gaza, in Medio Oriente e altrove, è invece la nostra “zona d’interesse”: questa volta riguarda noi, interroga noi, ci chiama a rispondere perché ci definisce in quanto esseri umani. Non per niente il processo di deumanizzazione è ogni volta ciò che lo consente.
Sempre nelle sue memorie, papa Francesco rammenta anche che cosa dev’essere realmente una democrazia che non voglia ridursi a formula vuota: «L’unica autorità possibile è quella che rappresenta un servizio» alla causa della pace e della solidarietà tra i popoli, dice, perché l’autorità che non è servizio a questa causa è comunque «dittatura». Aggiungendo la sua preoccupazione per una «costante erosione di diritti, che faticano a tradursi dalle nostre magnifiche carte costituzionali alla vita concreta». Come non pensare a questo proposito, primo tra tutti, all’articolo 11 della Costituzione italiana che, riverberata da altre Carte fondamentali nel continente e in occidente, afferma senza alcun balbettamento né possibilità di fraintendimenti che «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E se non fosse ancora abbastanza chiaro cosa questo comporti nella concretezza, aggiunge che «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni».
Ecco, le organizzazioni internazionali hanno parlato, più e più volte: cosa si aspetta ancora ad applicare, ovunque, le meravigliose Costituzioni che sventoliamo per manifestare le nostre superiorità, e troppo spesso per mascherare le nostre ipocrisie? Ai leader che si dicono cristiani e cattolici non pare superfluo poi ricordare, come ha fatto recentemente lo stesso segretario di Stato Vaticano, il cardinale Parolin, che la Santa Sede il suo riconoscimento dello Stato di Palestina lo ha fatto già «da mò», ovvero perlomeno dal gennaio 2016, quando, dopo quello firmato dieci anni prima, è entrato in vigore sotto Francesco l’accordo globale che insiste sulla soluzione dei due Stati contemplata nella risoluzione 181 dell’Onu.
Per molte ragioni, sembra che la speranza sia la grande assente dal palcoscenico della storia, eppure, e non ingenuamente, proprio alla speranza papa Francesco ha voluto dedicare l’autobiografia che rappresenta il suo testamento. Ma la speranza, ha chiarito, non ha nulla a che fare con l’acquiescenza. È una virtù cristiana certa, di consolazione sicuramente, di pazienza anche, ma soprattutto è una virtù combattiva, concreta, di coraggio e di lotta. «È la virtù del movimento e il motore del cambiamento». Credo che a chi gli chiedesse com’è possibile sperare ancora, proprio oggi, dopo Gaza, per Gaza, in questo baratro di umanità che sembra respingere e inghiottire ogni virtù umana, risponderebbe innanzitutto, anche con un filo di voce: «Fate chiasso, avanti!».
Scrittore, co-autore di “Spera”l’autobiografia di papa Francesco
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