mercoledì 16 luglio 2014
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​L'elezione del lussemburghese Jean-Claude Juncker al ruolo di presidente della Commissione europea era largamente prevista. Juncker prende il posto del portoghese José Manuel Barroso sulla poltrona di maggior prestigio e potere tra tutte quelle dell’Unione. Eletto con un numero di voti sostanzialmente identico (376 voti contro 382) a quelli di Barroso, per 10 anni alla guida della Commissione, consentirà ai Popolari europei di conservare la carica per almeno altri 5 anni o magari 10. Un successo non così scontato, considerato il generale arretramento del Ppe alle ultime elezioni. Con una progressione che non deriva esclusivamente da quanto stabilito dai Trattati (Lisbona in primis), Juncker ha voluto accentuare i caratteri di "premiership" della propria investitura, presentando il proprio programma prima del voto di approvazione da parte dell’Europarlamento. Un discorso che non poteva che affrontare il tema del giorno (ma dovremmo dire piuttosto, e purtroppo, il tema di questi ultimi 6 anni), cioè quello della crescita e dell’occupazione. Tutte cose che o non ci sono o sono flebilissime. Quella di una crescita che sappia essere qualcosa di diverso da una "jobless recovery" (una ripresa senza occupazione) è forse la principale sfida sulla quale la Ue si gioca non la faccia, ma qualcosa di più: la sua stessa sopravvivenza. Per vincerla, Juncker ha proposto un piano di investimenti infrastrutturali da 300 miliardi di euro, ma al contempo ha chiarito che la massima attenzione per la crescita e la flessibilità nell’applicare le regole di bilancio sono già inscritte nei Trattati  e non devono essere confuse con un’autorizzazione al ritorno alle finanze allegre. Compito duro quello che Juncker ha deciso di svolgere, ma del resto non più aggirabile. Ormai è difficile non rendersi conto che i partiti anti-Unione rischiano, prima o poi, di diventare maggioranza nel Parlamento europeo e in quelli nazionali se l’economia non ricomincerà a girare e a produrre anche posti di lavoro. E il fatto che la disoccupazione tocchi soprattutto giovani, già titolari di quote consistenti di debito pubblico acceso dai padri e dai nonni, fa capire quanto il riparto tra costi e benefici a danno delle generazioni più "verdi", meno protette e meno corporativizzate, sia una palude da cui non sarà così facile uscire. Ma soprattutto svela come l’alternativa tra crescita e alleggerimento dei vincoli di bilancio sia poco più di un argomento retorico, utile forse per raccogliere voti, consenso e popolarità in ambito domestico, ma poco spendibile a livello europeo. E che ciò che funziona in Italia non necessariamente valga anche in Europa, il nostro governo lo sta sperimentando con la difficoltà a far passare il nome del ministro degli Esteri Federica Mogherini come futuro Alto rappresentate per la Politica estera.Probabilmente Matteo Renzi si era illuso che la simpatia, l’attenzione, l’interesse di cui è stato fatto oggetto da parte degli altri leader europei negli incontri post elettorali, segnati anche dal forte successo nelle urne del Pd renziano, attestassero una sorta di naturale prosecuzione in Europa della sua leadership nazionale. Le cose evidentemente stanno un po’ diversamente. I 10 Paesi (su 28) che si oppongono alla nomina di Mogherini lo fanno non certo per perplessità sulla sua breve esperienza ministeriale, ma per segnare il proprio scontento rispetto alla politica tenuta dall’Unione nei confronti della Russia di Putin sulla vicenda dell’Ucraina. Ora, mentre è evidente che su questa condotta la responsabilità di Renzi e Mogherini è modesta (entrambi appena insediati e con poche o nulle competenze pregresse in politica internazionale), è altrettanto lapalissiano che la politica di Renzi verso Putin ha segnato una condiscendenza e un "calore" che non può che preoccupare polacchi e baltici proprio quando l’Italia assume la presidenza semestrale di turno dell’Unione. Logico quindi che questi puntino i piedi. Occorre però chiedersi se anche altri in Europa, in maniera più defilata, sotto sotto non provino una certa soddisfazione a dare una ridimensionata al giovane fenomeno fiorentino, anche nella consapevolezza che quella della politica estera è la seconda sfida che l’Unione deve dimostrare di saper vincere: le guerre civili in corso di svolgimento dalla Libia al Levante arabo, la crisi ucraina e l’ennesima guerra israelo-palestinese stanno ricordandoci con sanguinaria monotonia quanto l’Europa debba almeno provare a fornire un contributo alla loro risoluzione.
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