Alle radici del non-voto c'è l'impotenza della politica
martedì 21 febbraio 2023

Caro direttore,

i risultati delle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia, definiti vincitori e vinti, sono stati archiviati con un millesimo dell’attenzione dedicata alla triste trasgressione politicamente corretta di Sanremo. Invece, dovrebbero angosciare chiunque abbia a cuore la salute della nostra democrazia. Sono gli ultimi punti di una lunga serie storica. Innanzitutto, per la tendenza impressionante dell’astensione, segnata da un nettissimo tratto sociale. Tecné indica oltre il 70% per precari e disoccupati. La nostra democrazia diventa, di fatto, “censitaria”. La seconda tendenza è l’incontrastata affermazione della destra. Una destra dal carattere corporativo. Attenzione, non siamo un unicum: le dinamiche sono simili nelle altre demo-crazie consolidate dell’Occidente. Perché il duplice andamento, apparentemente paradossale, in un quadro di impoverimento del lavoro e di disuguaglianze insopportabili? Ovviamente, le spiegazioni sono molteplici, anche di carattere congiunturale. Ma vi è soprattutto una ragione strutturale: la diffusa percezione di impotenza della po-litica, di irrilevanza delle istituzioni democratiche, ai fini della realizzazione di misure efficaci a migliorare le proprie condizioni materiali di vita. Una percezione, ahimè, corretta. Il vigente contesto economico-istituzionale, generato anche dagli attuali Trattati europei, con in particolare la “liberazione” dei movimenti di capitali, merci, servizi e persone dagli obiettivi sociali – prescritti dalla nostra Costituzione (come dalle altre Costituzioni scritte dopo la Seconda Guerra mondiale) – priva la politica degli strumenti essenziali per attuare incisivi interventi “di sistema” per difendere e promuovere il Welfare State universalistico, condizione necessaria di democrazia sostanziale, come inciso nell’art. 1 della nostra Carta.

Quali “bottoni” sono stati eliminati dalle “stanze” della politica in senso lato, incluse le organizzazioni di lavoratrici e lavoratori, motore riformista primario nel cosiddetto «Secolo breve»? La capacità di imposizione fiscale sui redditi abnormi di finanza e multinazionali, a causa della mobilità dei capitali. La politica monetaria, a causa di una Bce deresponsabilizza da obiettivi sociali. Lo sciopero, parziale o generale, a causa delle facili delocalizzazioni delle imprese. Insomma, nella profezia di Alfredo Reichlin: «La finanza decide, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione».

Certo, il mantra neoliberista esalta l’efficacia delle cosiddette «riforme strutturali»: privatizzazioni, liberalizzazioni, meno tasse e meno spesa pubblica per strappare fette di mercato agli altri. Ma il difetto logico dell’integralismo della concorrenza è la sua relatività: funziona se uno corre e l’altro sta fermo; se tutti corrono, le posizioni relative rimangono invariate e si accelera la race to the bottom, una corsa al ribasso dove il lavoro e il welfare si impoveriscono. Lasciamo stare l’Italia, “legno storto”. In Usa e Regno Unito, epicentro dell’offensiva neoliberista partita con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il rigetto della “cura” ha prodotto, oltre l’Atlantico, il Donald Trump dell’«America first», principio ora ispiratore anche delle misure protezioniste del presidente Joe Biden; e, oltre la Manica, ha imposto la Brexit.

In tale contesto di primato assoluto dell’economia sulla società, la politica può nel migliore dei casi curare soltanto le condizioni materiali di vita di alcune categorie. Soltanto soluzioni corporative, a somma zero, sono possibili in un quadro di risorse sempre più scarse. Quindi: autonomia differenziata per la “secessione dei ricchi”, tassazione agevolata per interessi economici forti ed evasione fiscale per chi può; welfare aziendale, a carico della fiscalità generale, per i nuclei di lavoratori e lavoratrici delle attività a più elevato valore aggiunto. A compensazione: dissanguamento del welfare universalistico (sanità e scuola) e fine della redistribuzione di reddito verso i settori sociali più in difficoltà.

In conclusione, alla domanda di protezione sociale alimentata dai flussi incontrollati di capitali, merci, servizi e persone si può rispondere soltanto con interventi selettivi. È la cifra distintiva della destra corporativa. La cifra universalistica, propria della sinistra, è invece impraticabile in quanto richiede il ripristino, a cominciare dalle direttive europee e dallo statuto della Bce, della funzione sociale delle libertà economiche e della politica monetaria. Quindi, non siamo colpiti da un vento improvviso e passeggero, ma dal primato assoluto delle quattro sacre libertà economiche.

Per rianimare la democrazia partecipata e dare voce alle periferie sociali, è ora di acquisirne consapevolezza e definire un’agenda di politiche coerenti con il “controlimite” sociale scolpito nella nostra Costituzione.

Economista, già parlamentare della Repubblica

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