domenica 22 maggio 2016
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Fra le non poche critiche che alcuni esponenti dell’establishment rivolgono alla riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum in autunno, è opportuno tornare a ragionare su una dal sapore apparentemente neutrale e non ideologico, cioè come si su suol dire – di carattere "tecnico". La riforma sarebbe mal scritta, non avrebbe linguaggio di Costituzione, ma di regolamento parlamentare, o, addirittura, di regolamento di condominio. Come esempio di questo deficit, si indica l’art. 70 della Costituzione, il quale, dalle lapidarie nove parole del testo attuale (La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere) passerebbe a una lunghezza di circa una pagina. Conclusione: la Carta viene banalizzata dalla riforma, che ne fraintende la funzione, che dovrebbe essere solo quella di porre princìpi. E, in fin dei conti, l’argomento è: i riformatori costituzionali non hanno saputo fare il loro lavoro. Questa critica, proprio per il suo carattere apparentemente neutrale, va presa sul serio. Ma è infondata e, inoltre, dimostra il limitato orizzonte di chi la formula, sia sul piano della storia costituzionale comparata, sia su quello dei problemi costituzionali cui la riforma tenta di fare fronte. Partiamo da questi ultimi e prendiamo le mosse proprio dall’art. 70, vale a dire dalla disciplina del procedimento legislativo. Il testo attuale può cavarsela in nove parole proprio in quanto mette le due attuali Camere in una posizione di assoluta parità. Poche parole, semplicità apparente e radicale disfunzionalità della soluzione. La quale, infatti, esiste soltanto in Italia, almeno se si considerano i regimi parlamentari. Solo nel nostro Paese, infatti, esistono due Camere elette entrambe a suffragio universale che danno la fiducia al governo e il cui consenso è necessario per approvare le leggi. E ciò, in un contesto nel quale non esistono più i partiti organizzati della Prima Repubblica e il sistema elettorale, non integralmente proporzionale, può generare situazioni assurde, come quella di due Camere con colorazione politica diversa. Del resto ciò è già successo: in forma rimediabile nel 1994, nel 1996 e nel 2006, in forma inizialmente paralizzante dopo le elezioni del 2013. Un assetto da cui si esce solo con una grande coalizione permanente. Dunque non sempre ciò che è semplice dà soluzioni buone: ritenerlo significa praticare il semplicismo. Del resto, se si guarda alle Costituzioni contemporanee che prevedono forme di bicameralismo non paritario, si scopre che le parole spese per regolare il concorso delle due Camere nella formazione delle leggi non sono certo solo nove, ma si avvicinano alla pagina scritta nella riforma Renzi-Boschi. Per rendersene conto basta scorrere gli articoli 76 (264 parole), 77 (299 parole) e 78 (42 parole) della vigente Costituzione tedesca. Ma non è tutto. Vi è una tendenza storica che i difensori della assoluta intoccabilità della (pur già 'toccata') Costituzione del 1947 mostrano di ignorare, abbarbicati come spesso appaiono a un testo che rischia di essere trasformato in un feticcio e ciechi alle tendenze della storia costituzionale. Quest’ultima, piaccia o meno, fa registrare negli ultimi decenni, una tendenza all’allungamento dei testi costituzionali. Ciò riguarda non solo le Costituzioni adottate di recente (fra le quali si possono menzionare vari esempi dell’America Latina e dell’Est Europa, di connotazioni ideologiche diverse), ma anche la riforma di Costituzioni più o meno coetanee di quella italiana: si pensi alla riforma francese del 2008 o alle Föderalismusreformen adottate in Germania nel 2006 e nel 2009. Certo, le vecchie Costituzioni dovevano essere – per riprendere una battuta di Napoleone – brevi e molto oscure. Ma appunto perché non risolvevano i problemi. Detto ciò, è pur vero che la riforma non è priva di sbavature, e contiene scelte ambigue, che potranno essere sviluppate solo con leggi di attuazione e con una coerente prassi costituzionale. Ma da un lato ciò era vero anche per la Carta del 1947 (si leggano gli art. 136 e 137 sul cruciale tema della giustizia costituzionale per ricordare quante scelte furono rinviate dai Padri costituenti pure su un tema cruciale, ma sul quale non si fece in tempo a impostare una soluzione coerente e compiuta, quella del sistema di giustizia costituzionale). E dall’altro, i passaggi peggiori della riforma del 2016 sono quelli che hanno alle spalle la faticosa ricerca di un compromesso, magari non riuscita. L’art. 57.5 sull’elezione dei senatori – che sembrerebbe essere rimessa ai Consigli regionali, ma che al tempo stesso deve aver luogo alla luce del risultato delle elezioni regionali – è un ottimo esempio di pessimo drafting (costruzione di un testo) costituzionale, che sembra più un rafting, in realtà. Ma esso è la conseguenza della battaglia sul sistema di elezione del Senato, risolta con un compromesso dilatorio, un altro classico dei testi costituzionali contemporanei, come ben sappiamo da Carl Schmitt in poi. La riforma, in sintesi, contiene varie soluzioni discutibili. Ma fa il lavoro che ci si può attendere da una revisione della Costituzione: ne rispetta i princìpi portanti, modifica incisivamente alcuni meccanismi invecchiati, compie scelte di politica costituzionale. E non è perfetta. C’è da rallegrarsene, non solo perché la perfezione non è di questo mondo, ma anche perché una Costituzione perfetta priverebbe i giuristi del loro materiale di lavoro, creando legioni di nuovi disoccupati.
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