Ma a Londra chi dà voce ai filo-Ue?
mercoledì 19 aprile 2017

E così, insieme a Francia e Germania, anche il Regno Unito andrà alle urne nel 2017: Brexit o non Brexit la Gran Bretagna fa ovviamente parte dei "grandi" d’Europa, il cui voto avviene però proprio all’ombra della Brexit. Francia e Germania hanno l’esigenza di rinsaldare il loro asse, affinché sia in grado di reggere al sovrappiù di responsabilità che inevitabilmente gli arriva dal "leave" inglese. Theresa May, dal canto suo, ha esplicitamente dichiarato che le ragioni che l’hanno spinta a mutare opinione sulle elezioni anticipate (fissate per l’8 giugno) stanno principalmente nella necessità di ottenere un più forte ed esplicito mandato popolare per poter concludere la pratica iniziata con il referendum voluto da David Cameron.


Si tratta innanzitutto di ricevere un’investitura politica diretta per poter trattare il divorzio inglese dall’Unione da una posizione più solida: un successo elettorale dei Conservatori capeggiati dalla signora May (apertamente e senza riserve favorevole alla Brexit) avrebbe anche il significato di un secondo referendum implicito e convincerebbe gli ex partner europei che è il popolo inglese nel suo complesso a voler lasciare un’Unione mai troppo amata. Lei stessa verrebbe finalmente percepita non come la soluzione transitoria post-Cameron, ma come la leader che, piuttosto che intestarsi la vittoria di altri (lo UKip), è l’artefice della più complicata e delicata partita politico-istituzionale giocata dalla Gran Bretagna dai tempi del suo ingresso nella Cee.


Del resto May sa bene che con questa House of Commons e con questi Lords ogni singolo passaggio verso la realizzazione concreta della Brexit si trasformerebbe in un’occasione di guerriglia politica. Con imboscate parlamentari, voti dall’esito incerto e continua melina nella Camera bassa. Sui secondi, la cui ostilità alla Brexit è nota e manifesta, la premier non ha alcun potere. Ridotti a un numero esiguo i Lords ereditari, gli altri sono comunque creati Pari "a vita" (un po’ come avveniva nel vecchio Senato del Regno d’Italia): mutare la composizione della Camera alta è quindi possibile, ma richiede tempi biblici. Per ciò che concerne i Comuni, invece, May ha l’opportunità di ottenere una nuova composizione, con rappresentanti più allineati rispetto al suo sentire e forse al sentire popolare.

Al momento infatti il Partito conservatore non solo gode di una risicata maggioranza (10 seggi), ma è anche diviso al suo interno tra gli entusiasti e gli scettici rispetto alla Brexit.Dopo l’8 giugno, se May dovesse vincere, tutti, o quasi, i nuovi deputati conservatori sarebbero giocoforza allineati sulla posizione ufficiale di May e del partito. E potrebbero essere anche molti di più di quelli che siedono attualmente sui banchi della maggioranza: stando a un recentissimo sondaggio della Bbc, i Conservatori dovrebbero avere il 44% dei voti, contro il 25% dei Laburisti, l’11% dell’Ukip, il 10% dei liberaldemocratici, il 5% dei Nazionalisti scozzesi e il 4% dei Verdi.

Per i meccanismi del sistema elettorale britannico (maggioritario puro a collegio uninominale senza recupero dei resti), ciò si potrebbe tradurre in una maggioranza dotata di un vantaggio di 100 deputati sulle opposizioni riunite: un numero sufficiente per far capire agli europei l’aria che tira Oltremanica, per garantirsi da qualunque imboscata parlamentare e per far desistere i Lords dal loro ostruzionismo.

A essere davvero nei guai sono proprio i Laburisti, che sulla questione della Brexit hanno assunto una posizione incomprensibile agli occhi degli elettori: di fatto né per il sì né per il no. Il paradosso è che nel Regno Unito, i sudditi gallesi e inglesi di Sua Maestà che sono contrari alla Brexit non hanno un partito che li rappresenti a parte i liberaldemocratici. Mentre d’altro canto i laburisti rischiano di ritrovarsi senza una solida constituency, una base elettorale non contendibile dalla quale, un domani, rilanciare la sfida ai tradizionali avversari. La Brexit potrebbe così assestare un duro colpo a uno degli elementi politici costitutivi della Britishness: un sistema sostanzialmente bipartitico, fondato sulla competizione tra formazioni che nutrono la ragionevole speranza di alternarsi al governo con una certa regolarità.

È dai tempi di Margaret Thatcher, in realtà, che il sistema ha iniziato a trasformarsi, con fasi di vera e propria incontrastata egemonia di Conservatori o Laburisti (si pensi a Tony Blair), i quali vincevano quando riuscivano a occupare il centro dello schieramento, senza peraltro abbandonare il proprio radicamento. Ma se i 'senza partito' di domani saranno gli orfani dell’Unione, la parte più attiva, giovane, istruita e cosmopolita del Regno, che ne sarà della salute del suo sistema politico e costituzionale?

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