lunedì 17 luglio 2023
Ospite nella redazione di "Avvenire", Volodymyr Sahaidak racconta come è riuscito a impedire la deportazione dei minorenni a lui affidati. «Ma ne ho visti deportare altri». Da mesi riceve minacce
Parla lo "Schindler" di Kherson: «Così ho salvato 52 minori». Minacce da Mosca
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«Porteremo via i vostri bambini. Siete nazisti di Kherson, li state educando all’odio contro di noi. Sarete tutti processati». Le parole dell’ufficiale dei servizi segreti russi non erano una minaccia. «Erano la conferma di tutto quello che temevo: avrebbero portato via i nostri ragazzi e forse non li avremmo mai più rivisti». Volodymyr Sahaidak doveva fare qualcosa. Per questo lo chiamano «lo Schindler di Kherson».

Il direttore di uno dei due centri per minori vulnerabili nella città che affaccia sulla Crimea è uno degli uomini con cui Mosca ha un conto aperto. Kherson è stata occupata nelle prime settimane di guerra e progressivamente liberata in autunno. Semmai si arrivasse a un processo per i crimini di guerra, Sahaidak sarà tra i principali testi contro Vladimir Putin nell’accusa per la deportazione di minori. Perciò lo cercano ancora e anche durante la sua visita nella redazione di Avvenire a Milano viene protetto da un dispositivo di sicurezza che ha garantito a lui, alla moglie e alla figlia di poter incontrare gli amici italiani con cui da anni era in contatto per le adozioni. Gli avvertimenti sono giornalieri. «Pochi giorni - racconta - fa mi è arrivato questo messaggio: ricordati che hai una famiglia».

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Scriviamo quando il dottor Sahaidak ha già lasciato l’Italia. Non capita a tutti di doversi guardare le spalle da Putin. Lo cercano come hanno fatto con il suo amico Oleksander Kornyakov, il fotoreporter che consegnò ad Avvenire le immagini della carneficina nel primo giorno di occupazione a Kherson: una folla disarmata chiedeva ai russi di andarsene, il comandante delle forze speciali d’occupazione rispose facendo sparare ad altezza d’uomo. Prima di rispondere Volodimyr pone una sola condizione: «Alcune cose potranno essere rese pubbliche solo quando la guerra sarà finita. La sorte di molti bambini ucraini non è ancora decisa e dobbiamo favorire ogni tentativo di riportarli a casa».

Un momento dell'intervista. Da destra Volodymyr Sahaidak, Andrea Noto (referente dell'associazione parrocchiale di Cormano 'Ukrainitaly') e il giornalista Nello Scavo

Un momento dell'intervista. Da destra Volodymyr Sahaidak, Andrea Noto (referente dell'associazione parrocchiale di Cormano "Ukrainitaly") e il giornalista Nello Scavo - Avvenire

Quanti ragazzi c’erano nella vostra struttura?

«Erano 52. Tutti adolescenti. Alcuni orfani, altri di famiglie con problemi. Generalmente si tratta di ragazzini che ci vengono assegnati dal tribunale quando devono essere protetti da situazioni di vulnerabilità».

Quanti ne sono rimasti al termine dell’occupazione russa?

«Tutti e 52. Nessuno è stato deportato. Li abbiamo nascosti e salvati tutti. Tranne altri 15 che i russi avevano portato da noi come piccoli prigionieri, ma sorvegliati dai soldati. Erano bambini piccoli da Mykolaiv. Li hanno condotti da noi per pochi giorni e poi li hanno fatti sparire».

Partiamo dall’inizio. Quando ha capito che avrebbero voluto trasferire lontano da Kherson i ragazzi?

«L’ho temuto da subito, perché sapevamo che qualcosa del genere era accaduto nel Donbass. Nel filmato delle videocamere interne si vedono chiaramente i soldati russi, armati e a volto coperto, che ci chiedono di consegnare la lista dei minori».

Lei dove viveva in quei giorni?

«Mi ero trasferito nel centro, giorno e notte. Ho chiamato mia moglie e le ho detto che non sarei più tornato a casa fino a quando i bambini non sarebbero stati al sicuro. Per due mesi non sono uscito dalla casa dei ragazzi. E ogni giorno pensavo a trovare un modo per guadagnare tempo con i russi».

Come avete fatto?

«A piccoli gruppi li facevamo uscire con i nostri dipendenti: educatori, impiegati, inservienti. Alcuni di loro hanno figli e sono stati coraggiosi ad assumersi il rischio di venire scoperti. Abbiamo falsificato i documenti facendoli figurare come dati loro in affido o in adozione. Oppure in cura per gravi malattie, scoraggiando i militari dal portare via ragazzi che sarebbe stato poi un problema far adottare in Russia. Non c’erano veri corridoi sicuri per i civili che volevano fuggire da Kherson. Un po’ alla volta approfittando di piccoli varchi siamo riusciti ad evacuarli tutti verso le zone controllate dai nostri».

Cosa accadde dopo la prima irruzione dei militari russi?

«Quando hanno capito che stavo registrando tutto con le nostre telecamere interne, hanno portato via i computer, i registri, i documenti. Le apparecchiature sono state disattivate e a noi restava pochissimo tempo. Siamo riusciti a nascondere i filmati del loro secondo ingresso, il 4 giugno, e così ora potete vedere in che modo venivano da noi».

Come reagivano i ragazzi?

«Soprattutto alla sera stavo con loro a bere un tè fare due chiacchiere per stemperare l’angoscia e stabilire insieme come comportarci. All’inizio pensavamo di trovare qualche nascondiglio, ma con quei soldati non sarebbe servito. Allora abbiamo preparato il copione delle “adozioni”».

Ha parlato di altri 15 minorenni portati da voi e sorvegliati dai russi. Cosa è successo?

«Erano bambini prelevati dai soldati russi nella regione di Mikolayv, a poca distanza da Kherson. Alcuni erano molto piccoli. Non abbiamo potuto fare niente per loro. Avrei voluto tenerli con noi, ma i russi non lo hanno permesso e li hanno portati via verso la Crimea. Di loro non sappiamo più nulla».

La Santa Sede ha avviato una missione di “diplomazia umanitaria” affidata al cardinale Matteo Zuppi, che si sta occupando soprattutto della deportazione dei minori...

«Credo e spero che si possano trovare dei modi perché possa essere avviato un meccanismo di restituzione dei bambini. Non posso dire molto, ma da quello che so posso dire di essere fiducioso».

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