mercoledì 25 giugno 2025
Poco prima dell'annuncio della tregua un missile ha colpito Ber Sheva e ucciso 4 persone. Ancora allarme ad Haifa dove nessuno degli abitanti arabi di Wadi Ninsnas ha un rifugio privato
Il palazzo distrutto da un missile iraniano ieri a Ber Sheva

Il palazzo distrutto da un missile iraniano ieri a Ber Sheva - Reuters

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Rai aveva appena riaperto il piccolo bar che gestisce ai piedi del sontuoso “Giardino Bahai” di Haifa, quando il suono della sirena l’ha fatto trasalire. L’aveva chiusa il 13 giugno per gli allarmi continui iniziati subito dopo l’offensiva con l’Iran. Alba di ieri, dopo l’ennesima notte di sonno intermittente, però, era arrivato deciso a ricominciare. Aveva già risistemato i tavolini sul marciapiede di Ben Gurion Road quando l’ha colto l’allarme. «E il cessate il fuoco?», ha sussurrato tra l’incredulità e la rabbia prima di precipitarsi nel bunker dell’hotel di fronte, a tre ore e 25 minuti dall’entrata in vigore dello stop raggiunto per l’intervento di Donald Trump e la mediazione del Qatar. Il presunto finale di “Rising lion” è stato una giostra di emozioni contrastanti per gli israeliani. Il dolore per i morti di Ber Sheva, nel sud, si è sciolto nel sollievo per la tregua. Subito dopo, lo stupore e la paura per il nuovo lancio di missili mattutino – che Teheran nega – e il raid di Tel Aviv su una struttura militare iraniana s’è tramutato in attesa guardinga.
«Vediamo se regge…», dice Ofir, 30 anni, residente di Neve Zeev a Bersheva, quartiere colpito da un razzo di quattrocento chili al termine della notte di febbrili trattative tra Washington, Doha, Tel Aviv e Teheran.


È la terza volta che la città del Neghev è stata raggiunta dalla guerra nel giro di 5 giorni. Giovedì scorso era caduta una scheggia, il giorno successivo un ordigno aveva devastato l’ospedale Soroka, ferendo oltre 80 persone. Non c’erano, fortunatamente, state vittime. Fino a ieri. I sei piani dell’edificio centrato al numero 48 del boulevard Jabotinsky si sono sbriciolati: quattro israeliani sono morti nel crollo, portando il bilancio totale a quota 29. Molti di meno di quelli denunciati dalle autorità della Repubblica islamica che parla di 610 uccisi. Le perdite sono, comunque, pesanti per entrambi. «Non so nemmeno come mi sono salvata. Mi hanno tirato fuori le squadre di soccorso. Allora ho visto cosa era rimasto della mia casa: niente», racconta Victoria Shifrin, inquilina del palazzo crollato di Ber Sheva, fra i 38mila residenti dello Stato ebraico ad aver subito danni nella “Guerra dei dodici giorni”, il primo confronto bellico diretto con un altro Stato – non un’organizzazione armata per quanto aggressiva, vedi la Seconda Intifada – dal 1973.


«Siamo stati altre volte bersaglio dei razzi di Hezbollah. Ma questo è un’altra cosa», dice Zahara. Sullo spiazzo della chiesa greco-ortodossa di San Giovanni di Haifa, è seduta in cerchio con alcune decine di persone. Al centro, su un tavolino di plastica, ci sono patatine e frutta. Potrebbe quasi sembrare un picnic se non ci fosse di mezzo la guerra. «Cosa facciamo? Aspettiamo che cadano le bombe o smettano di cadere – le fa eco Ala –. Dicono che si sono fermati ma alla mia età, 80 anni, non è facile correre. Preferisco avere il rifugio vicino». Come tutti i residenti di Wadi Nisnas, il principale quartiere arabo nel centro di Haifa, non ha una stanza-bunker o “mamad” come le chiamano gli israeliani. Di fronte all’emergenza, la parrocchia ha messo a disposizione il parcheggio sotterraneo. Ha dato anche ventilatori e materassini per rendere almeno un po’ più vivibile il luogo dove disabili, malati, anziani sono accampati da quasi due settimane per la paura di non arrivare in tempo. Altri stanno fuori pronti a scendere le due rampe di scale. Altri ancora si precipitano quando c’è un‘allerta. La metà della popolazione di Haifa non ha un “mamad”. Fra gli abitanti di origine palestinese, però, il numero cresce esponenzialmente. «Noi arabi siamo 44mila: appena un migliaio ne avrà uno. Il fatto è che gran parte vive nelle cosiddette costruzioni storiche, dove i regolamenti rendono estremamente complicato e costoso costruire un rifugio», spiega Jafar Farah, direttore del Mossawa center della “capitale del nord”. Secondo l’ultimo rapporto nazionale dell’associazione Bimkon, il 46 per cento degli arabi-israeliani è privo di “mamad” contro il 26 per cento dei connazionali ebrei.


Il Comune di Haifa afferma di avere realizzato un centinaio di rifugi pubblici. A Wadi Nisnas, però, scarseggiano e l’amministrazione rimedia aprendo i piani interrati di scuole, musei, uffici. Ha piazzato, inoltre, dodici bunker-mobili, in cui entrano massimo in venti.
Anche a Tamra, a mezz’ora da Haifa, i 40mila abitanti si riparano nelle 17 scuole dotate di piano interrato. Nessuna è vicina a casa di Layla che ha trascorso l’ultima allerta al centro del salotto, lontano dalle finestre. La donna vive nel terrore da quando, il 14 giugno, un missile balistico iraniano si è abbattuto sull’adiacente al-Hukmuh. Nell’esplosione, Raja Katib, avvocato laureato all’Università di Ferrara, ha perso la moglie, Mana, due delle tre figlie – Shada e Hala, di 20 e 13 anni –, e la cognata, anche lei Manar. «Ieri, per la prima volta, sono riuscito a sorridere quando ho saputo del cessate il fuoco. Non voglio che altri vivano la mia sofferenza – conclude in perfetto italiano –. Solo mi chiedo: perché questa guerra? Non potevano parlare prima davanti a un tavolo? Che necessità c’era che la mia famiglia fosse massacrata?

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