Siria, un anno senza gli Assad. Ad esultare, però, è solo al-Shaara
di Luca Geronico, inviato a Damasco
A Damasco le celebrazioni per il «liberation day». Ma cresce la preoccupazione fra la gente per le tensioni comunitarie mentre la ricostruzione deve ancora iniziare

«Aleppo sta rinascendo, e con lei tutta la Siria» ha affermato il 29 novembre scorso, parlando sulla scalinata di ingresso alla Cittadella il 29 novembre, il presidente Ahmad al-Shaara. In quella data, un anno fa, entrava da vincitore a capo delle milizie di Hayat Tahrir al-Sham. E domani il “Liberation day”, riempirà piazza degli Omayyadi a Damasco completando una settimana e più di celebrazioni del nuovo potere in Siria. L’8 dicembre, giorno della fuga di Bashar al Assad a Mosca, è stato proclamato festa nazionale. Ma la gioia incontenibile di un anno fa, come la festa del Capodanno 2025 in quella stessa piazza, pare essere già svanita.
Molti dei siriani scesi nella stessa piazza davanti alla moschea degli Omayyadi il 15 marzo scorso, anniversario dell’inizio della “Rivoluzione siriana” con le bandiere a strisce nero-bianco-verde e le tre stelle rosse , forse preferiranno restare a casa. In un anno la gioia ha lasciato il posto a scetticismo disincantato, se non a palese preoccupazione: «Le facce nuove di Idlib» –come dicono i damasceni – in divisa nera a bordo di motociclette, ora presidiano gli incroci e dirigono il traffico. Simbolo di uno “spoil system” violento che ha azzerato i vertici militari e la macchina burocratica in mano agli alauiti, con il nuovo corso in mano agli uomini di Ahmed al-Shaara e milizie alleate sunnite, arrivati nella capitale dall’ultima provincia ribelle di Idlib con un “blitz” durato appena 12 giorni senza quasi combattere.
Se la visita dell’autoproclamato presidente al-Shaara lo scorso 10 novembre alla Casa Bianca – con tanto di “pacca sulla spalla” di Donald Trump nonostante l’uscita da una porta laterale – è stato il sigillo all’avvenuta riabilitazione internazionale dell’ex capo terrorista, al suo interno la Siria è sospesa tra l’attesa di riforme promesse dal «nuovo governo» che tardano e timori che le gli scontri inter comunitari possano degenerare in aperto conflitto. Dopo gli scontri di marzo fra governativi e alauiti a Latakia (oltre 1.400 i morti) e quelli di luglio tra tribù beduine sunnite e drusi (centinaia di morti e migliaia di sfollati) con esecuzioni sommarie in diretta social, saccheggi e vandalismi, l’ultima fiammata è stata due settimane nei quartieri alauita di Homs, città “roccaforte” dei Fratelli musulmani sunniti. Una guerriglia urbana scatenata per 12 ore in ritorsione all’uccisione di una coppia della tribù sunnita Bani Khalid a cui le comunità alauite hanno risposto nei giorni seguenti con una serie di manifestazioni di piazza in tutta la Siria. Un fremito di rivolta che ha consigliato ad al-Shaara di lanciare appelli all’unità nazionale e riconoscere come «rivendicazioni legittime» alcune richieste del governatore di Latakia, la città costiera luogo di origine del clan Assad, perno comunitario del vecchio regime alauita. Ma al-Shaara ha pure sbarrato la strada all’ipotesi di una autorità indipendente perché «una Siria senza acceso al mare perderebbe una parte fondamentale della sua forza strategica». E per fugare le accuse di parzialità in questi scontri comunitari al Palazzo di giustizia di Damasco, a metà novembre, è andato in scena un processo contro 7 miliziani filo-governativi e contro altri 7 miliziani alauiti accusati di delitti negli scontri dello scorso marzo a Latakia. Una messa in scena ad uso della propaganda, secondo molti analisti più che un concreto segnale di volere riportare la legalità. Il ritrovamento di fosse comuni e i nuovi file emersi sulle esecuzioni e le sparizioni nelle prigioni del vecchio regime restano un incubo che molti temono, in nome dell’arbitrio e di tribunali controllati dai nuovi overnanti, si possa trasferire al presente.
Ma questa è solo una delle tre Siria che il nuovo potere deve tenere insieme. Le altre due sono il Rojava, nel Nord Est – dove si trovano pure i giacimenti petroliferi di Deir ez-Zor – controllato dai curdi delle Forze democratiche e la regione meridionale del Golan sotto occupazione israeliana ed ora base strategica per accerchiare Hezbollah in Libano oltre che compiere continui raid contro siti militarmente sensibili.
La Siria è uno snodo strategico per determinare il futuro di tutto il Medio Oriente ed è per questo che sulla costruzione del suo futuro politico si giocano più partite: un “giardino del Medio Oriente” dove da sempre interessi regionali e internazionali armano milizie e si spartiscono zone di influenza e possibili guadagni.
Un anno dopo i nodi della questione siriana stanno venendo al pettine di un potere che ha trovato in Trump, nell’Arabia Saudita i suoi maggiori sponsor per traghettare il vecchio perno della mezzaluna sciita nell’orbita filo Occidentale. Ma è un risiko rischioso: la Russia che non rinuncerà mai alle sue basi mediterranee a Tartus mentre si vocifera di truppe e consiglieri americani in arrivo. Se i “Patti di Abramo” sono la nuova cornice, tutti aspettano che dopo i loro congelamento, gli Usa tolgano le sanzioni per avviar la ricostruzione: un business, secondo la Banca mondiale, da 216 miliardi che, risanando l’economia, potrebbe stemperare le tensioni sociali e avviare il Paese a una stabilità interna. Lo sanno anche i primi imprenditori italiani già giunti a Damasco a riannodare contatti mentre il nuovo governo ha aperto un fondo sovrano per favorire gli investimenti.
Solo il primo dicembre si è stampato il primo numero del quotidiano al-Thawra al-Souriya segnando il ritorno della stampa dopo 5 anni. Per questo la nomina del nuovo parlamento, con collegi elettorali aperti a soli 6mila notabili, è avvenuta nel disinteresse generale. E vere elezioni, ha promesso al-Shaara, saranno solo fra 5 anni, terminato il processo di revisione costituzionale. Intanto a un anno dalla fuga di Assad, a Damasco la festa è svanita.
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