Suor Marcella Catozza: «Il silenzio su Haiti è violenza»
La religiosa ha vissuto per vent'anni in una delle baraccopoli più problematiche di Port-au-Prince. Ha dovuto lasciare il Paese per le minacce delle gang, ma spera di tornare appena possibile. «Per gli haitiani devono esistere spiragli di speranza. Noi li abbiamo visti a Kay Pe’ Giuss»

Suor Marcella Catozza ha vissuto ad Haiti per vent’anni, fino a quando i ricatti delle bande armate l’hanno costretta a lasciare il Paese, nel 2024. «Spero di tornarci il prima possibile - dice, al telefono - Quella è casa mia». I suoi racconti portano dentro uno dei quartieri più complessi di Port-au-Prince, la capitale di Haiti. È Waf Jeremie, una baraccopoli completamente controllata dalle gang armate, dove oggi vivono migliaia di persone. Suor Marcella, che è missionaria francescana, ha gestito un’opera che è una casa di accoglienza (Kay Pe’ Giuss), una scuola elementare, una scuola materna, un nido e un poliambulatorio. Ci vivono più di 140 bambini. A loro Suor Marcella è ancora molto legata: ogni giorno è in stretto in contatto con chi lavora nella struttura, tra riunioni di aggiornamento e pianificazioni settimanali.
La sua esperienza a Port-au-Prince iniziò quando l’allora arcivescovo di Haiti, mons. Joseph Serge Miot, le chiese di andare a lavorare proprio a Waf Jeremie con i cercatori di immondizia, insieme ad un'altra religiosa. «Il quartiere era una sorta di discarica a cielo aperto, un cumulo di rifiuti in cui le persone costruivano casette in lamiera. Io avevo già lavorato in tanti Paesi, ma una miseria così non l’avevo mai vista. E pensare che Haiti si trova a un’ora di volo da Miami» racconta la religiosa. All’inizio, entrare nella baraccopoli non fu facile. «L’ingresso alla zona era sostanzialmente impedito ai bianchi. I primi passi avvennero perché aprimmo un piccolo, piccolissimo ambulatorio per la gente che viveva lì». Poi, a segnare una svolta nel rapporto con le persone e con il territorio è un evento tragico. «Una notte ci fu un’alluvione molto forte - ricorda Catozza - e le stradine della baraccopoli si allagarono, l’acqua si alzava continuamente. Ci si rese conto in fretta che alcune persone erano sparite: un uomo e sette neonati erano stati portati via dalla corrente. In quel momento, la mamma di uno di quei bambini venne da noi e ci scongiurò, piangendo, di trovare il suo piccolo». Una richiesta che Suor Marcella descrive come «sproporzionata»: «La situazione era incredibilmente dura ma ci mettemmo a cercare senza sosta, per tutta la notte, con l'acqua che arrivava sopra le cosce. Quei bambini non vennero ritrovati. Poco dopo accadde per me una cosa particolare: con l'arrivo del giorno, un uomo si avvicinò con un secchio d'acqua. Era uno di quelli che aveva sempre ostacolato il nostro ingresso a Jeremie. Si sedette e mi lavò i piedi, che erano completamente sporchi di fango. Il valore di quel gesto lo capii solo dopo: per Haiti, anche solo un secchio d'acqua è cosa preziosissima. Quell'uomo ci stava dicendo che dopo quella notte così drammatica vissuta con loro, eravamo anche noi gente della baraccopoli».
Di storie personali, Suor Marcella ne potrebbe raccontare molte. Come quella di una mamma che un giorno arrivò da lei con due gemelli neonati. Aveva poco latte da dare ai bambini e il medico le aveva detto che avrebbe dovuto scegliere di far sopravvivere solo uno dei figli. «Da quell'incontro nacque il "Programma latte" per aiutare le donne che, anche a causa della povertà alimentare, non riuscivano a produrre abbastanza latte per i propri piccoli - ricorda ancora Suor Marcella - I due figli di quella donna oggi sono cresciuti, la loro vita è andata avanti». Spiragli di speranza che si aprono laddove sembra quasi impossibile: è così che Suor Marcella definisce quello che continua ad avvenire nella missione. «Oggi tutte le attività vengono portate avanti da ragazzi e ragazze haitiani con cui abbiamo lavorato per anni. È per me una gioia enorme sapere che tutta l’opera va avanti, e non solo. I ragazzi stanno avendo delle grandi idee: ad esempio, aggiungere alcune classi e fare spazio a nuovi bambini, visto che l’aumento della violenza delle gang nella capitale ha comportato la chiusura di molte scuole; o creare classi apposite per bambini che hanno un tempo di apprendimento più lento degli altri compagni di classe. La vitalità della missione mi commuove sempre».
Fuori da Kay Pe Giuss e dalle altre opere, la violenza non fa sconti. Suor Catozza lo ha sperimentato sulla sua pelle. È il 2024 e la baraccopoli di Waf Jeremie è già da anni in mano alle bande armate. «C’erano i cecchini sui tetti - spiega Suor Marcella - Ma fino a quel momento con il capo della gang locale eravamo riusciti ad avere un dialogo, con incontri che avvenivano alle nostre condizioni, senza armi e con la garanzie del rispetto di Kay Pe’ Giuss, che in fondo migliorava le condizioni di vita di tutto il territorio». Le cose cambiano quando le gang armate si uniscono nella coalizione Viv Ansam, a fine 2023. In quel momento le bande che controllano Waf Jeremie devono mostrare agli alleati di avere pieno potere su chiunque abiti nella baraccopoli. Iniziano, allora, i ricatti. «Il dialogo con loro si è improvvisamente chiuso e si è passati alla violenza. A un certo punto ci hanno chiesto 3mila dollari e noi non li abbiamo dati. Poco dopo hanno spaccato il braccio a una nostra infermiera». La minaccia si allarga presto a tutti gli operatori di Kay Pe’ Giuss e delle altre strutture della missione. «Alla fine hanno chiesto 30mila euro con la minaccia che se non avessimo pagato avrebbero dato fuoco alla struttura con tutti noi dentro. Mi sono interrogata a lungo su cosa fare, e dopo il confronto con il nunzio apostolico, l’unica soluzione possibile è stata pagare e subito dopo lasciare il Paese. Era l’ultima decisione che avrei voluto prendere, ma non potevamo mettere in pericolo la vita di tutte le persone con cui lavoravamo». Così, suor Marcella lascia il Paese. Oggi guarda l’accaduto con occhi nuovi: «Le persone che per anni hanno lavorato con me stanno mostrando di essere davvero cresciute, di essersi formate molto bene, e oggi non solo portano avanti l’opera, ma la stanno proprio migliorando».
Perché, oggi, è necessario tenere gli occhi puntati su Haiti? «Dobbiamo renderci conto che il mondo è molto più grande del nostro metro quadrato e dei nostri interessi - risponde Suor Marcella - Nel mondo ci sono persone che sono chiamate a fare una fatica pazzesca per vivere, ogni giorno. Il silenzio che c’è su Haiti oggi è veramente violento secondo me. Continuare a parlare di questo contesto e dei tanti altri dimenticati vuol dire ricostruire l’Uomo, ricordare alle persone che siamo tutti fratelli e sorelle e che ci sono dimensioni di creaturalità e relazionalità che sono autentiche e costitutive per tutti noi. Dobbiamo tornare a renderci conto che da soli non arriviamo da nessuna parte, che possiamo andare avanti soltanto insieme. E prenderci davvero a cuore le situazioni che incontriamo».
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