giovedì 26 ottobre 2023
Un gruppo di parlamentari ha scelto la «capitale della minoranza» per denunciare le discriminazioni e minacce, dopo il massacro del 7 ottobre, nei confronti dei cittadini di origine palestinese
Un vecchio manifesto elettoraledel premier Benjamin Netanyahu alla periferia di Nazareth, la cittàcon la più elevata concentrazione di arabi israeliani

Un vecchio manifesto elettoraledel premier Benjamin Netanyahu alla periferia di Nazareth, la cittàcon la più elevata concentrazione di arabi israeliani - Ansa

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«Ormai cerco di parlare arabo il meno possibile». Luna ha 19 anni e lunghi capelli neri sciolti sulle spalle. «No, il velo non l’ho mai portato», aggiunge la ragazza, nata e cresciuta a Nazareth e studentessa al Techical Institute di Haifa. La sua vita, come quella di tutti gli israeliani, è stata stravolta dal massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Delle oltre 1.400 vittime del gruppo armato, Luna ne conosceva personalmente due: «Erano al rave organizzato al kibbutz Reim, li hanno ammazzati». Oltre al trauma e al dolore del lutto, però, la 19enne deve fare i conti con l’ostracismo di cui, d’un tratto, racconta di vedersi circondata a causa delle sue origini. «Sono araba, palestinese e cittadina israeliana. Tra queste tre definizioni non c’è mai stata incompatibilità. Adesso sembra di sì. Nel campus, tanti mi guardano con sospetto, smettono di parlare quando entro in una stanza, mi evitano. Ho sorpreso alcuni studenti ebrei intenti a fotografare lo schermo del cellulare mentre scrivevo sui social in arabo. E non sono la sola. Già quattro colleghi arabi israeliani sono stati chiamati in direzione per spiegare quanto avevano pubblicato su Instagram o X. Se poi dico che sono contraria ai raid su Gaza – non perché sostengo Hamas, tutt’altro, è orribile e ingiustificabile quanto ha fatto – divento subito filo-terroristi».
Le vie di Nazareth sono insolitamente tranquille. I bar del centro sono chiusi come il mercato. E la chiesa dell’Annunciazione – meta quotidiana di migliaia di pellegrini e turisti – è vuota. La capitale araba di Israele – il 70 per cento degli abitanti sono arabi musulmani e il 30 per cento cristiani – vive con il cuore in gola da tre settimane. «Ho detto ai miei figli, di 17 e 19 anni, di non prendere i mezzi pubblici per venire a Nazareth -racconta Nadira, operatrice di un’organizzazione che tutela i diritti delle donne e residente a Nof Hagalil, a 15 chilometri di distanza –. Meglio evitare di esporsi, non vorrei venissero insultati o minacciati. E ho proibito loro di scrivere qualunque commento sui social. Non sono paranoica. Due ragazze che conosco sono state arrestate per aver pubblicato delle foto dei bambini morti nella Striscia». Da sempre in bilico fra la loro duplice identità, i due milioni gli arabi di Israele –1,5 milioni sono cittadini e mezzo milione ha lo status speciale dei residenti di Gerusalemme –, si sentono nella morsa.
La strage di Hamas ha precipitato governo di Benjamin Netanyahu – e soprattutto gli alleati di ultradestra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich – nell’incubo del «nemico interno» o «quarto fronte», dopo Gaza, il Libano e la Cisgiordania. La minaccia, in questo caso, verrebbe da quel 20 per cento della popolazione di discendenza palestinese, con famiglie e amici nei Territori.
Potenziali fiancheggiatori, dunque, secondo le componenti più oltranziste della politica e della società; pronti a colpire, però, non con le armi ma con la tastiera di pc e cellulare. Secondo gli ultimi dati della Procura, oltre un centinaio di arabi-israeliani sono stati arrestati e indagati dal 7 ottobre per aver pubblicato sui social «propaganda terrorista». Tra loro, proprio a Nazareth, la cantante e influencer Dalal Abu Amneh e l’attrice Maisa Abdel Hadi. Secondo l’organizzazione Mussawa, dall’inizio del conflitto, almeno 150 lavoratori sono stati licenziati e oltre duecento studenti espulsi da scuole di vario ordine e grado per aver criticato in modo troppo veemente la guerra contro Hamas.
Eppure, nei kibbutz intorno a Gaza, i miliziani hanno massacrato anche quindici arabi, sostiene Mussawa. «Noi siamo vittime come tutti gli altri israeliani». La voce di Muhammad Baraka risuona forte nella sede del National commettee for arab local authorities in Israel di Nazareth. Il tono del parlamentare e portavoce del comitato è appassionato. Ieri sera avrebbe dovuto svolgersi ad Haifa un incontro di israeliani – ebrei ed arabi – contrari al conflitto. «Il proprietario della sala conferenze, però, è stato chiamato dalla polizia e minacciato di “conseguenze” se ci avesse ospitato. La stessa cosa è accaduta con un’iniziativa analoga prevista domani a Shfar’am», sottolinea. Per i dieci rappresentanti degli arabi israeliani nella knesset è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Il gruppo ha presentato un denuncia pubblica. «Noi non siamo Hamas. Soffriamo per quanto accaduto il 7 ottobre e per quanto continua ad accadere nella Striscia – ha tuonato –. Non distinguiamo gli innocenti assassinati in base all’etnia o alla religione. Lo affermiamo pubblicamente anche se rischiamo di essere etichettati come “complici”». Accanto a lui c’era l’ebreo Avraham Burg, noto politico laburista, consigliere di Shimon Peres, e ex speaker del Parlamento: «In questa difficile situazione dobbiamo unire le nostre voti, ebrei e arabi. Hamas ci minaccia in uguale misura. Dobbiamo sconfiggerla. Non, però, con questa guerra senza scopo se non accontentare la sete di vendetta provocata dalla rabbia in una parte dell’opinione pubblica. Sappiamo bene che contro Hamas non sono sufficienti le armi. Occorre una strategia di ampio respiro. Non mi pare che il governo ce l’abbia».

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