giovedì 29 marzo 2018
La coppia, accusata di blasfemia, venne arsa viva. Erano in schiavitù in una fornace, rilasciato anche il titolare
Shahzad Masih e la moglie Shama, cristiani pachistani, bruciati vivi nel 2014 nella fornace in cui erano schiavizzati

Shahzad Masih e la moglie Shama, cristiani pachistani, bruciati vivi nel 2014 nella fornace in cui erano schiavizzati

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Una sentenza che suona come una beffa quella che ha assolto 20 accusati per il linciaggio di una giovane coppia cristiana il 4 novembre 2014 a Kot Radha Kishan, nella provincia del Punjab in Pakistan. Il 26enne Shahzad Masih e la moglie 24enne Shama, erano stati accusati di avere gettato pagine del Corano durante le normali attività di rimozione dei rifiuti dalla loro povera abitazione in una fabbrica di mattoni dove lavoravano in condizioni di semi-schiavitù.

I due erano stati aggrediti da centinaia di individui aizzati contro di loro, rinchiusi in un deposito e, dopo una notte costretti a sfilare davanti alla folla inferocita e poi – secondo diverse testimonianze – bruciati vivi in una fornace. Un delitto atroce, aggravato dalla circostanza che la donna, già madre di quattro figli, era incinta di un quinto. Nel tentativo di evitare il linciaggio erano rimasti feriti anche alcuni poliziotti. Nelle settimane successive, anche per lo sdegno che si era manifestato nel Paese e per la pressione della società civile, erano stati fermati 400 individui. La motivazione era con ogni probabilità connessa alla condizione di dipendenza dei due dai proprietari della manifattura, che pensavano ancora una volta di potere agire nell’impunità punendo la coppia per la difficoltà a restituire i debiti contratti. Una pratica, quella della schiavitù per debito, radicata e raramente perseguita dalla legge, che coinvolge milioni di individui nel Paese e contro cui sono impegnati molti gruppi e organizzazioni con un’opera di sensibilizzazione, ma anche con incentivi all’istruzione e a attività lavorative alternative.

Per quel grave evento criminale, la polizia aveva indagato supportata da diverse testimonianze oculari dei fatti, ma due anni dopo, il 22 novembre 2016, un tribunale anti-terrorismo di Lahore, tra quelli chiamati dalla fine del 2014 anche a giudicare anche casi efferati di persecuzione e di omicidio, aveva ordinato il rilascio di 93 accusati, incluso il proprietario della fornace all’origine della vicenda. Nella stessa occasione, erano stati condannati alla pena capitale cinque uomini, tra cui il predicatore Hafiz Ishtiaq, riconosciuto colpevole di aver mobilitato e incitato alla violenza attraverso gli altoparlanti della moschea locale. Altri otto erano stati condannati a due anni di carcere come fiancheggiatori degli omicidi.

Il loro destino però è tutt’ora incerto: non si è avuto notizia di esecuzioni o dell’esito dei prevedibili appelli. Per il pubblico ministero Abdur Rauf, i 20 a cui la Corte ha restituito la libertà erano finiti sotto processo dopo gli altri e da qui una soluzione più ritardata del procedimento. Il rilascio ha suscitato reazioni. Riportata dall’agenzia Asia-News quella di Rojar Noor Alam, manager operativo di Caritas Pakistan, che sottolinea ancora una volta l’arbitrio implicito nell’uso della “legge antiblasfemia”: «La persecuzione delle minoranze religiose e in particolare dei cristiani, non è una novità in Pakistan. Sfortunatamente, gli inquirenti spesso falliscono nel loro lavoro e questo produce ritardi nella giustizia, che a loro volta si traducono nel rilascio senza alcuna pena dei colpevoli».

Alam sottolinea come «nella storia di questo Paese i responsabili degli attacchi contro le minoranze non sono mai stati puniti. Persino i tribunali vengono controllati da questi fanatici che usano la loro influenza per liberare i terroristi. Anche per questo il Pakistan sta diventando pericoloso per le minoranze religiose».

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