
Sabrina Ugolini - S.U.
Non è un caso che l’ambasciatore italiano per l’Afghanistan sia... una ambasciatrice. È stato lo stesso ministro degli Esteri Tajani a confermarlo in un recente discorso in Parlamento: la nomina di Sabrina Ugolini, lo scorso ottobre, dopo Natalia Quintavalle, è un messaggio chiaro e inequivocabile. All’Italia stanno a cuore i diritti delle donne e delle ragazze, ridotti a zero dai taleban al potere dall’agosto 2021. La sede dell’ambasciatrice Ugolini, così come degli altri rappresentanti dei Paesi occidentali, non è a Kabul ma è temporaneamente spostata a Doha, nel Qatar, dove si svolgono negoziati periodici con i delegati dell’autorità de facto, gergo diplomatico per intendere “non riconosciuta ufficialmente”.
Ambasciatrice, nella sede diplomatica da pochi giorni è stata posizionata una panchina rossa... quasi una provocazione?
È un impegno preciso del ministro degli Esteri Tajani, e ci tenevo molto anch'io. È simbolo del vuoto lasciato nella società quando una donna cade vittima di femminicidio, ma anche una testimonianza visibile della lotta alle discriminazioni di genere.
La prima domanda non può essere che questa: cosa significa essere donna e trattare con i taleban?
Io sono madre e sono stata una studentessa che ha potuto respirare il vento della libertà. Quando incontro le ragazze afghane disperate per la sorte della loro generazione e di quelle future, sento forte il desiderio di fare tutto ciò che posso, nella posizione in cui mi trovo, per aiutarle.
Come si declina l’impegno italiano nel suo incarico?
L’Italia è parte del processo di Doha a guida Nazioni Unite, che ha l’obiettivo di mantenere un canale di coinvolgimento con i taleban. Il tentativo è di confrontarci pragmaticamente su temi specifici. Partecipiamo a gruppi di lavoro su temi come il contrasto al narcotraffico e lo sviluppo del settore privato, in cui alle donne afghane è concessa una minima possibilità di autonomia. Dunque da un lato l’Italia è coinvolta nel processo multilaterale, dall’altro è vicina alla popolazione afghana con un impegno umanitario significativo. L’Italia ha ribadito la sua linea di fermezza nei documenti conclusivi dei Meeting del G7 di Capri e Fiuggi nel 2024.
Ma lei riesce a introdurre il tema dei diritti umani nel dialogo con i taleban?
Sì, certo. Ogni volta che parlo con il capo dell’Ufficio politico dei taleban qui a Doha per lavorare su questioni concrete, come ad esempio la tutela dei cooperanti, ho la possibilità di ricordare i valori che ci guidano. Il primo incontro, lo confesso, è stato per me fonte di grande emozione. Ho potuto ricordare che l’Italia è stata sempre vicina alla popolazione afghana e che pur nella situazione di congelamento delle relazioni politiche continua a supportarla. E infine ho sottolineato che l’Italia, nella sua appartenenza a un sistema di diritti umani, condanna le sistematiche violazioni in Afghanistan, con particolare riguardo alla situazione delle donne e delle ragazze e all’esclusione dall’istruzione.
E lui come reagisce?
Prende appunti. Continuamente. Nel primo incontro il diplomatico ha replicato che le donne hanno una certa libertà di movimento e di espressione come imprenditrici. Negli incontri più recenti mi ha fatto presente che a Kabul – dove tra le autorità de facto sta emergendo una componente politica più moderata rispetto alla gerarchia dislocata a Kandahar - c’è la consapevolezza che l’istruzione femminile è un nodo che va affrontato. Sembra una piccola apertura… Nella vastità della violazione dei diritti umani che si consuma in Afghanistan, una modifica al divieto all’istruzione femminile sarebbe dirompente. Del resto il movimento talebano non è compatto, esistono divisioni interne che noi osserviamo con attenzione.
Nessun Paese occidentale riconosce l’Emirato islamico dell’Afghanistan, ma numerosi Paesi, tra cui Russia e Cina e alcuni Stati confinanti, fanno affari con i taleban. Nell’attuale scenario geopolitico, quanto a lungo l’Occidente potrà mantenere la sua posizione di fermezza?
I Paesi confinanti hanno l’esigenza di consolidare le relazioni con un vicino che potrebbe portare instabilità. In Afghanistan, è vero, sono presenti materie prima di grande interesse, ma per lo sfruttamento occorrono ancora importanti investimenti in infrastrutture. Per il momento alcuni Paesi stanno siglando accordi di natura commerciale, indipendentemente dal riconoscimento ufficiale delle autorità de facto. Occorre notare anche che i Paesi che lei ha citato forse non hanno le nostre stesse priorità in materia di tutela dei diritti umani…
L’Italia farà scelte analoghe?
Nella nostra Costituzione è iscritta la tutela dei diritti umani e la non discriminazione. No, al momento il riconoscimento non è previsto perché in caso contrario perderemmo l’unico elemento per poter contrattare sul rispetto dei diritti umani. Noi abbiamo scelto il coinvolgimento pragmatico, su singoli dossier, e la linea ferma sui diritti umani. È un processo lungo che richiede pazienza, ma che dobbiamo vivere con l’ambizione di ottenere risultati. Altrimenti chiudiamo la porta e abbandoniamo la popolazione a sé stessa.
Dall’11 al 13 aprile lei ha partecipato a Istanbul all’Afghanistan Coordination Group, la conferenza dei Paesi donatori organizzata da Banca Mondiale, Unione Europea e Nazioni Unite e altre istituzioni. Quali impegni sono stati presi?
Di fronte al congelamento dell’aiuto Usa è emersa la necessità di ripensare e ricompattare gli interventi, in modo da raggiungere lo stesso numero dei beneficiari con risorse ridotte. Come rappresentante dell’Italia ho suggerito di lavorare sulle priorità e ampliare i donatori, coinvolgendo partner privati. Corea del Sud ed Emirati Arabi Uniti hanno espresso la volontà di partecipare. Puntiamo anche ad attori regionali come l’Uzbekistan, che hanno interesse a stabilizzare l’Afghanistan. L’Italia ha confermato l’impegno dello scorso anno (nel 2024 si trattò di 16,5 milioni di euro, ndr), concentrato sui bisogni di base come sicurezza alimentare, igiene e salute. Da qui a qualche anno, inoltre, a Kabul ci sarà un disperato bisogno di acqua, dobbiamo prepararci.
In questi tre anni e mezzo purtroppo non si sono aperti varchi – se non parziali, temporanei e soprattutto non ufficiali – per un rientro delle ragazze nel sistema di istruzione. Come evolveranno le cose secondo lei?
La comunità internazionale è compatta e coerente nel condannare le violazioni dei diritti umani. A Istanbul l’istruzione femminile è stata evocata come un elemento imprescindibile, una linea rossa su cui si giocano i rapporti politici.