Il nostro viaggio in Terra Santa, alla vigilia di Natale
di Mauro Berruto, Gerusalemme
Gerusalemme continua a incantare, nonostante la cappa di mestizia. La vertigine di raggiungere Betlemme, il luogo dove tutto è cominciato

Quando scendiamo i gradini che conducono alla Porta di Damasco, una delle otto porte della Città Vecchia di Gerusalemme, ormai è passato il tramonto. In piedi, fermo a metà della scalinata, c’è un ragazzo che avrà trent’anni che dall’accento si direbbe americano. Guarda di fronte a sé, verso la Porta costruita cinquecento anni fa da Solimano il Magnifico. Fra le mani ha una Bibbia, legge in inglese dei versi del Deuteronomio che riguardano l’esortazione a non spaventarsi, la gioia dell’essere felici e vivere nella Terra Promessa. Declama quei versi, anzi li urla, di fronte alla Porta, come se lo scopo di tutta la sua giovane vita fosse nell’essere lì, in quel momento. Un piccolo gruppo di Haredim, gli ebrei ortodossi con i loro riccioli e i cappelli a falda larga, gli passa lentamente davanti. Sono cinque, emettono una specie di sibilo ritmico, un soffio ostile che invita al silenzio. Lui, invece, declama più forte. E loro aumentano quel soffio. Sembrano animali che si gonfiano ed emettono suoni per intimidirsi a vicenda; poi tutto si quieta, torna il silenzio, riemerga la bellezza incantevole di Gerusalemme. La Città Santa incanta per la storia che ti avvolge, per la bellezza delle architetture, per quella luce che, senza retorica, non ha eguali al mondo. Gerusalemme incanta ancora, nonostante la cappa di mestizia che si percepisce.
Ci sono poche persone nei vicoli che portano alla Basilica del Santo Sepolcro. Le stradine che si intersecano con la Via Dolorosa normalmente sono un formicaio di persone, mercanti, grida, colori di spezie e profumi stordenti. Invece è tutto silenzioso, spento, chiuso. Arriviamo alla soglia della Basilica e sulla sua solita panchina, Adeeb, il custode della chiave del Santo Sepolcro, mostra anche lui un’aria rassegnata. È uno dei discendenti della famiglia Husseini, a cui nel 1187 Saladino affidò la chiave di ferro di venti centimetri che apre e chiude il grande portone di ingresso. Famiglia musulmana, perché Saladino, più di ottocento anni fa, decise per questa incredibile mediazione, dando vita a un equilibrio unico, proprio lì, nell’epicentro delle tre religioni monoteiste. Loro, gli Husseini, da generazioni, eseguono: Adeeb ha appena chiuso il portone, si siede e sincronizza lo sguardo all’atmosfera che lo circonda.
«Quando tornerete in Italia, dovete dire a tutti di tornare in Terra Santa», ci implora il cardinale Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme. Prima il virus, poi due anni di ferocia, stanno mettendo in ginocchio il morale, l’economia, l’esistenza stessa del luogo che è il baricentro della spiritualità del pianeta. Questo rischio di abbandono, che si somma a tutti gli altri di ordine geopolitico, si manifesta ancora di più a Betlemme dove per la prima volta, dopo quattro anni, si torna, a fatica, ma con speranza, a festeggiare il Natale. Qui, all’ombra del muro lungo oltre 700 chilometri su cui lo street art Bansky disegnò la famosa colomba con il ramoscello d’ulivo nel becco e il giubbotto antiproiettile, la resistenza e la speranza non muoiono mai. Affacciati dal balcone del municipio, osserviamo, a pochi metri dalla Basilica, un grande albero addobbato di luci. Intorno hotel chiusi, negozi chiusi, bancarelle chiuse. La vice sindaca, Lucy Talgieh, ripete lo stesso messaggio: «Dovete dire a tutti di tornare in Terra Santa» e qui, il senso, si percepisce con ancora più intensità. Forse a Gerusalemme Est gli stranieri non colgono il dramma, anche se a due passi dalla porta di Damasco, nei quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah le operazioni di esproprio e abbattimento delle case palestinesi proseguono impunite, sotto agli occhi di tutti. Betlemme, nonostante sia solo a una decina di chilometri, è oltre il Rachel’s Tomb checkpoint, uno dei mille che trasformano pochi minuti di distanza in anni luce. «Non ricordo da quanto tempo non posso andare a Gerusalemme con tutta la mia famiglia» sospira Lucy Talgieh e confermano tanti studenti della Università Cattolica di Betlemme, la prima fondata cinquantadue anni fa in Cisgiordania e gestita dalla congregazione cristiana dei fratelli di Jean-Baptiste de la Salle. «Molti di noi non sono mai stati a Gerusalemme perché non possiamo superare il checkpoint, quasi nessuno ha mai visto il mare – dicono i ragazzi – però vogliamo studiare e restare qui, perché questa è la nostra terra, questa è la Terra Santa». Studiare, laurearsi, restare anche se il futuro è un punto interrogativo: Israele riconosce la laurea in scienza infermieristiche, perché se stai male di Shabbat quasi certamente si prenderà cura di te un medico o un infermiere palestinese, ma non quella in scienze dell’educazione, perché nelle scuole israeliane un palestinese no, non può insegnare.
Davanti alla Basilica della Natività non c’è quasi nessuno. La piazza è quella dove nel maggio 2002 le forze di sicurezza israeliane entrate a Betlemme, assediarono per trentanove giorni la Basilica dove si erano rifugiati degli attivisti palestinesi. Qui Padre Ibrahim Faltas, frate francescano di origine egiziana, svolse il suo ruolo cruciale di mediatore, negoziando tra l’esercito e i palestinesi rifugiati all'interno, per prevenire violenze e distruzioni. Lo abbiamo incontrato all’università “abuna” Faltas, sono passati ventiquattro anni ed è ancora lì a difendere, presidiare, mediare, invitare al dialogo, regalare speranza. Entriamo nella Basilica della Natività dalla piccola porta scavata nella pietra, sotto giurisdizione greco-ortodossa. Il Papas si alza e con una sorta di memoria automatica del gesto, chiede di abbassare la voce, ma non c’è nessuno intorno a noi, la richiesta è solo il riflesso di una nostalgia per tempi che sembrano lontanissimi.
Arriviamo al punto esatto della venuta al mondo di Gesù, segnato a terra da una stella d’argento annerita dal fumo delle candele, dal tempo e dal tocco di milioni di persone che, per fede, per speranza o per rispetto ci hanno appoggiato sopra la propria mano. Nel momento in cui usciamo dalla Basilica che custodisce il metro quadrato dove due miliardi e mezzo di persone credono che Cristo sia venuto al mondo, sentiamo iniziare la salmodia di un Muezzin, che annuncia ai fedeli musulmani una delle cinque preghiere giornaliere. Quel canto si chiama adhân e ci spiegano che il Muezzin può scegliere di volta in volta di interpretarlo con uno stile diverso, talvolta più rilassante, altre più energico. Uno di quegli stili che si chiama nahawandè, il più malinconico: non conosciamo gli altri, ma a noi sembra proprio quello. E in quella malinconia che nasce solo quando il corpo è davvero lì, in certi luoghi, travolti dalla vertigine di un gorgo in cui le tre religioni monoteiste scorrono, si sfiorano, si feriscono e, in qualche modo, si cercano, con negli occhi i luoghi più sacri del Cristianesimo e nelle orecchie una preghiera musulmana che sale nell’aria, sembra di sentire il sussurro dell’antica frase ebraica «Shomèr ma mi-llailah?», quella del libro del Profeta Isaia: «Sentinella, quanto resta della notte?».
© RIPRODUZIONE RISERVATA





