domenica 22 giugno 2025
Fra diffidenza e speranza, l’iniziale sostegno dei gruppi persiani anti-ayatollah alle operazioni militari israeliane si è sfaldato. Cosa può accadere?
La mappa degli oppositori interni e il caos annunciato in Iran
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Non ci saranno “Le mille e una notte” tra Benjamin Netanyahu e l’opposizione iraniana. Fra diffidenza e speranza, l’iniziale sostegno dei gruppi persiani anti-ayatollah alle operazioni militari israeliane è andato perduto una volta che gli ordigni lanciati dalle forze armate di Tel Aviv hanno colpito non solo obiettivi militari, ma abitazioni, strade, perfino quei quartieri di Teheran dove l’opposizione è più forte e non c’è un solo condominio che non abbia visto retate e impiccagioni. Il ministero della Salute di Teheran ha parlato di 430 morti e almeno 3.500 feriti in questa prima fase della guerra dichiarata da Israele. Secondo alcune fonti locali sarebbero stime al ribasso, per nascondere l’inefficienza dei sistemi di difesa iraniani, la supremazia militare israeliana, e allo stesso tempo occultare l’esatto numero di vittime, peraltro senza fornire una distinzione netta tra militari e civili.

Innescare un cambio di regime non è l’obiettivo dichiarato da Israele, anche se il primo ministro Benjamin Netanyahu si è rivolto agli iraniani promettendo di volere «spianare la strada affinché possiate raggiungere la vostra libertà». In realtà un vero piano per il dopo non c’è, e i leader su cui punta Israele e parte dell’Occidente non sembrano avere in patria quel credito attribuito dalla grancassa mediatica.

Il rischio di impantanarsi è ogni giorno più concreto. «Se volete un vero cambio di regime in Iran, smettetela di fingere che l’élite in esilio salverà il Paese. La vera opposizione è già in Iran ed è rappresentata dalle minoranze. Sostenendole, sosterrete la libertà. Ignorandole, non farete altro che ripetere la storia». Sono parole di Pel Berwari, attivista curda che vive in Kurdistan.

«L’Occidente continua ad ascoltare le élite persiane in esilio, in particolare monarchici come Reza Pahlavi, figlio dello Scià. Ma queste persone – ha scritto Berwari per il centro di ricerca internazionale Memri – non hanno alcun potere in Iran e non godono del sostegno delle minoranze, che ricordano quanto male le abbia trattate lo Scià».

Le voci da dentro confermano lo scetticismo per una comunità occidentale che non ha capito a fondo che cosa l’Iran sia, fuori dai cliché conditi da turbanti e interpretazioni sbrigative. È sempre Pel Berwari a ricordare che «l’Iran non è solo persiano. È composto da molti altri popoli, tra cui i curdi a ovest, i beluchi a sud-est, gli arabi ahwazi a sud, gli azeri a nord-ovest e i turkmeni a nord-est».

In numeri vuol dire metà dei 90 milioni di iraniani. Oppressi da decenni, senza il diritto di parlare la propria lingua, senza potere politico e spesso presi di mira con violenza dal regime. Non è un caso se nel pieno degli attacchi israeliani i pasdaran della regione di Kerbala da almeno due giorni stiano dando la caccia ai militanti ahwazisti, il gruppo di opposizione della minoranza araba che vive nella provincia del Khuzestan, e in particolare nella città di Ahvaz.

Nelle zone di confine, gruppi separatisti curdi e beluchi sembrano pronti a sollevarsi, con gli attacchi israeliani che stanno mettendo a dura prova l’apparato di sicurezza iraniano. Ma il timore più grande è che l’operazione militare, senza un piano politico, non porti da nessuna parte. La milizia Basij, formazione paramilitare fondata a suo tempo dall’ayatollah Khomeini, ha dichiarato che la sua unità a Qom è stata messa in stato di allerta per «stanare le spie israeliane e proteggere la Repubblica islamica».

Qom è fra l’altro la città nella quale è stato ucciso da raid israeliani Saeed Izadi, capo della divisione palestinese della Forza Quds del corpo delle Guardie della rivoluzione islamica. La “pausa di riflessione” annunciata da Trump potrebbe non essere una cattiva notizia.

L’intervento armato americano, senza uno scenario chiaro e prevedibile, creerebbe altro caos senza una vera via d’uscita.

Nell’attesa, gli oppositori interni, sia persiani che non persiani, potrebbero costruire un percorso per destabilizzare il regime. Dalle strade di Teheran ai palazzi del potere di Tel Aviv, c’è una domanda che agita gli oppositori iraniani, la diplomazia internazionale, e perfino l’intelligence di Netanyahu: se Israele mettesse in fuga gli ayatollah, cosa accadrebbe a Teheran? E la risposta a questa domanda non riguarda solo l’Iran.
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