I bambini per strada, le luci, i turisti: Natale a Betlemme, che s'è rialzata
di Luca Foschi, Betlemme
La fragile tregua a Gaza ha dato una boccata d'ossigeno alla città. Il sindaco, cristiano: «L'economia è al collasso, ma diciamo al mondo che ci siamo ancora»

Fino a sera i bambini si rincorrono nella piazza della Mangiatoia, dando con gioia calci a un pallone. Intorno, i carretti degli ultimi ambulanti continuano a esalare i fumi del mais; sotto i portici, i proprietari dei negozi di souvenir si ostinano a restare seduti sulla soglia o chiudono lentamente i battenti. I poliziotti parlano e scherzano, mentre un turista si contorce nel tentativo di cogliere nella stessa inquadratura la compagna, il Presepio, il grande albero di Natale e l’oro silenzioso della Basilica della Natività. È la Betlemme della vigilia, con la sua luce mite e antica che torna ad affiorare dopo oltre due anni di guerra e oscurità. Ora la piazza si riempie di lingue diverse, di passi, di giornalisti affannati. «Hic de Virgine Maria Jesus Christus natus est», si legge nel cerchio della stella a quattordici punte che indica il luogo della grotta dove nacque il Messia, a poche spanne dallo spazio che ospitò la mangiatoia, sotto l’altare maggiore della Basilica. Johnny, guida turistica locale, si addentra nella simbologia della stella e poi, più prosaicamente, annuncia: «Siete fortunati, qui in condizioni normali è difficile anche farsi fare una foto». Il suo sparuto gruppo di pellegrini è composto da cinesi, sudcoreani, americani. «È il mio quinto lavoro in due anni, temo che passato il Natale sarà tutto finito», aggiunge, mentre aiuta una signora a rialzarsi dalla posa.
È un sentimento che pervade la città, come tutta la Cisgiordania trascinata in un nuovo girone di miseria e di lutto dal conflitto di Gaza e dal conseguente inasprimento dell’occupazione israeliana. Imprigionata dai check-point, privata dei pellegrini, Betlemme è stata per due anni un deserto. La fragile tregua iniziata in ottobre ha però facilitato i movimenti: come una breve pioggia su un terreno arido, ha nutrito l’insopprimibile istinto alla rinascita. Luce, dunque, e ombre. «Siamo circondati da 134 barriere. L’economia della città, che dipende all’80 per cento dal turismo, è collassata. La disoccupazione ha raggiunto il 65 per cento. Chi può emigra. Ma abbiamo deciso di riaccendere lo spirito del Natale, nonostante le difficili condizioni. Le persone devono poter immaginare un futuro. Voglio che Betlemme mandi il messaggio giusto al mondo: sosteneteci, sostenete la Palestina, la giustizia. Solo con la giustizia potremo ottenere una pace durevole», spiega ad Avvenire Maher Canawati, il sindaco cristiano della città. Dopo la visita in Vaticano di settembre, papa Leone gli ha inviato una lettera, letta pubblicamente il 6 dicembre, il giorno dell’accensione dell’albero.
«In questi giorni ci sono stati centinaia di turisti, gli alberghi hanno riaperto, i ristoranti hanno ricominciato a lavorare. L’Autorità Palestinese ci sta aiutando a rendere le strade sicure. Betlemme è viva, abbiamo risposto», afferma Canawati. Oggi la piazza della Mangiatoia ospita parate, canti, danze, una grande festa che culminerà con la Messa di mezzanotte celebrata dal patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, appena rientrato da Gaza. Uno spettacolo per i betlemiti e per il mondo, per i suoi popoli e i loro governi, chiamati a discernere fra distruzione e giustizia, verità e oblio, redenzione e tenebra, mentre restano spettatori dell’immensa solitudine delle vittime. Nel campo profughi di Aida, alla periferia di Betlemme, una piccola bicicletta prende velocità in discesa; la ruota s’incastra in una crepa dell’asfalto logoro e lo scolaro rovina a terra. Sopraggiungono i compagni, lo rincuorano. Si rialza con una smorfia rigida, sintesi di pianto e orgoglio. Il Natale arriva anche qui, dove la tendopoli del 1950 è diventata un asfittico labirinto di edifici irregolari, poveri carruggi segnati dai murales di pace e resistenza, circondati dal grande muro di separazione, dalle sue torrette occhiute e da un’area di addestramento dell’esercito israeliano che dista pochi metri dall’ingresso del campo: un grande buco di serratura sovrastato da una chiave, simbolo delle case perdute nella Nakba del 1948 e del mai sopito desiderio di ritorno.
Le scuole, i centri educativi, le Ong organizzano attività culturali e ludiche per bambini e adolescenti, coinvolgendoli nel colore della festa natalizia, oltre il grigiore del cemento. «Siamo qui da 77 anni, in uno spazio ormai senza regole. L’esercito israeliano entra quando vuole, terrorizza, arresta. Nessuno riesce a proteggerci, né l’Autorità Palestinese né la comunità internazionale. Ma dobbiamo preservare la nostra umanità: continuiamo a resistere come se l’occupazione non ci fosse. Non possiamo vivere nella paura. Loro fanno il loro peggio, noi il nostro meglio. Loro distruggono, noi creiamo», spiega nel suo ufficio Abdel Fattah Abu Srour, fondatore di al-Rowwad, centro culturale che ha scelto teatro, musica e danza come forme di resistenza nonviolenta. Negli ultimi mesi il centro ha dovuto destinare molte energie alla distribuzione di beni di prima necessità: fra i settemila abitanti, la disoccupazione supera il 75 per cento. Abu Srour chiama sumud la natura profonda dell’animo palestinese: perseveranza, capacità di sopportazione, resistenza ostinata. Un altro esempio vive nella selva di souvenir e articoli religiosi del Nativity Store, situato a «cinque metri da dove è nato Gesù», racconta con entusiasmo Rony Tabash, erede di una lunga tradizione. «Mio nonno ha aperto il negozio nel 1927, fra poco saranno cento anni. Tre generazioni», dice in un italiano limpido, con un’allegria che si attenua solo quando ricorda che ormai da Betlemme non emigrano più singoli individui, ma famiglie intere. La storica bottega coinvolge venticinque artigiani e non si è arresa a quattro anni di pandemia e guerra. «Nell’ultimo periodo mio padre è stato malato, ma ogni giorno mi diceva: vai, Rony, apri il negozio. Anche se c’è la guerra, anche se non c’è nessuno. Apri la porta, aprila alla speranza. Abbiamo bisogno del mondo per resistere, ma senza di noi questo posto diventerà un museo. Ce lo ha insegnato Gesù: siamo noi la pietra viva».
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