La resistenza nel cuore di Bucha: «Noi continuiamo a sognare la pace»

di Luca Geronico, inviato a Bucha (Kiev)
Nella città ucraina "martirizzata" durante l'occupazione russa, gli stati d'animo oscillano tra speranza e frustrazione. Mentre dall'aria continuano a piovere colpi
December 24, 2025
Una donna infagottata con giubbotto e foulard tocca con la mano una delle targhe che ricorda le vittime di Bucha sul muro del mausoleo costruito dove i russi avevano scavato una fossa comune vicino alla chiesa di Sant'Andrea
L'omaggio al memoriale delle vittime del massacro di Bucha vicino alla chiesa di Sant'Andrea
Anche Vasily Matveyevich, la barba grigia che incornicia il volto scavato dai suoi 86 anni, è fra i volontari di “Reti per la vittoria” a Nemishayeve, una manciata di chilometri da Bucha: nella sede del centro culturale gli anziani si ritrovano ogni giorno per confezionare, sfidando black out e allarmi aerei, biancheria per i feriti negli ospedali o balaclava in pile e tute mimetiche da inviare al fronte. «Mi ricordo quando Giovanni Paolo II visitò Kiev nel 2001» afferma l’anziano caporedattore di International career, una laurea in giornalismo a Mosca, mentre da uno scampolo di tessuto, mano alle forbici, ricava striscioline di stoffa per le mimetiche. «L’Ucraina era da poco indipendente dalla Russia e la gente non sapeva la differenza tra cattolici e greco cattolici» aggiunge, con un filo di ironia, lui cristiano ortodosso, come del resto tutte le donne che sono al lavoro nel salone del centro culturale. È la mobilitazione dei «volontari» per quella che in Ucraina, dopo quattro anni, continuano a chiamare “guerra di liberazione”.
Tre o quattro grandi pezze di tessuto in rotolo le ha scaricate dal suo van rosso Konstantin Gudauskas. Il suo magazzino nel centro di Bucha, prima della guerra sede della sua impresa di componenti elettrici, è il quartier generale della “resistenza dal basso”. Da qui si spedisce cibo, vestiti, attrezzature a Zaporizhzhia, Kherson, nel Donbass: «Trecento tonnellate in tutto quest’anno. Gli aiuti vengono da Lituania, Polonia, Francia, Italia, da tutta Europa» spiega Gudauskas seduto nel buio della cantina senza luce mentre sta finendo l’ennesimo allarme aereo. Anche l’altra notte i droni e i missili russi hanno colpito duro in tutta l’Ucraina e, per arrivare da Kiev, ci è voluta un’ora per percorrere una ventina di chilometri facendo lo slalom per evitare i quartieri sotto allarme. Fino a metà mattina l’esercito ucraino ha manipolato i segnali Gps dando le coordinate di Ponte de Lima in Portogallo per ingannare i puntatori russi. Il tutto mentre la quotidianità sembra procedere imperturbabile. Indifferenza colma di silenziosa opposizione al nemico lontano, ma ogni giorno così vicino.
«Dovete capire che noi stiamo difendendo non solo l’Ucraina, ma tutta l’Europa», afferma indicando il rottame di un motore di un drone caduto nelle vicinanze. Kostantin – nato in Kazakistan quando era ancora sotto l’Unione Sovietica, ma con passaporto lituano ereditato dai genitori – quando i russi se ne sono andati ha messo da parte cavi per l’alta tensione e pannelli solari per coordinare la macchina della solidarietà: dirige quattro magazzini per le spedizioni in tutta l’Ucraina e fornisce aiuti a un ostello di Kirovograd che accoglie 57 anziani profughi dal Donetsk e a un paio di orfanotrofi. Dietro queste silenziose attività una solidarietà che quattro anni di guerra non sembrano aver scalfito: «Non ci siamo fermati un attimo nell’organizzare gli aiuti perché tutta la popolazione crede nella pace, ma non crediamo nel lavoro della diplomazia». Se quest’anno la Russia ha stanziato per la Difesa circa 140 miliardi di dollari, la speranza di una tregua di Natale non ha illuso nessuno a Bucha: «Siamo in una cantina al buio, abbiamo tre ore di elettricità al giorno: gli ospedali, le scuole, i negozi non possono lavorare. Tutti siamo disposti a un accordo, ma come possiamo credere a un accordo con centinai di droni al giorno sulle nostre teste. Ma non è solo la nostra guerra: i primi droni hanno già colpito Polonia, Moldavia, Romani, Turchia». Finora, sorride un po’ sarcastico l’”imprenditore della solidarietà” kazako, «solo in modo occasionale».
Il muro del mausoleo con le 458 formelle in acciaio, con inciso in nero i nomi delle vittime è deserto. Il vento della steppa ucraina gela anche i ricordi mentre accarezza, assieme a tutti gli altri pure il nome di Iryna Oleksandrivna Rudenko: aveva 99 anni quando il 2 marzo del 2022 la soldataglia russa l’ha uccisa e gettata, come tutti gli altri, nella fossa comune nel parco della chiesa ortodossa di Sant’Andrea. «Stiamo proseguendo la guerra di liberazione. È molto importante per noi che le persone che vivono nei Paesi europei siamo stanche della guerra. Ma spero che capiscano una cosa molto semplice: nessun trattato di pace fermerà Putin» confida, fermo e molto pacato ad Avvenire, il parroco Andriy Halavin. La prova, per questo sacerdote ortodosso, è che la guerra in realtà non è iniziata il 24 febbraio 2022 ma nel 2014 con l’occupazione senza combattere della Crimea da parte di Putin. La speranza di una tregua? «Le famiglie vivono questo Natale separate: i figli con le madri, i padri al fronte. Ho avuto modo di incontrare il cardinale Matteo Zuppi: vorrei ringraziarlo perché con la sua mediazione molti uomini e anche molti minori sono potuti tornare alle loro case». La speranza di questo Natale si incarna in parole semplici e dure come pietre: «La pace per noi, qui, è una cosa molto semplice: quando la gente non muore».

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