
Il monastero di Mar Tecla è stato devastato dai jihadisti nel 2013
Non è proprio il classico albero di Natale. Dall’asta di metallo cala una rete verde che avvolge otto cerchi di diametro crescente. Niente palline e fili dorati. Con l’elettricità che va a singhiozzo, poi, le luci sarebbero state inutili. L’unica decorazione è una stella color argento in cima. È il simbolo, però, che conta. Specie a Maalula, comunità che sgorga dall’abbraccio di roccia del Qalamun, una sessantina di chilometri a nord di Damasco. Le case sono tutt’uno con le montagne dorate da cui si protendono. Ovunque, croci e icone sono scolpite fra i grappoli di pietra. Qua i cristiani sono il 90 per cento della popolazione. E gran parte di loro parla aramaico, la lingua di Gesù, sopravvissuta solo in cinque luoghi del pianeta. Per questo, Maalula, patrimonio dell’Unesco, è stata da sempre meta privilegiata di pellegrini da ogni dove. Fin quando la guerra civile ha trasformato il villaggio-cartolina, arroccato sull’altipiano, nel campo di battaglia tra i ribelli jihadisti e i soldati di Bashar al-Assad. Tutti volevano controllare “la porta” – Maalula vuol dire “entrata” – sulla direttrice tra la capitale e Aleppo. Nel settembre 2013, il Fronte al-Nusra, all’epoca affiliato ad al-Qaeda, ha sferrato l’offensiva e messo a ferro e fuoco – letteralmente – le oltre quaranta chiese, date alle fiamme e razziate, le icone millenarie rubate. Tra queste, la preziosa “Ultima cena” del III secolo, custodita nel convento di Mar Sarkis, accanto all’hotel Safir, quartier generale degli insorti. Con il sostegno delle forze russe e di Hezbollah, però, nell’aprile successivo, il regime ha avuto la meglio e ridotto in macerie le due moschee, considerate “covo dei terroristi”. Nei sette mesi di scontri, nel frattempo, diverse decine di abitanti sono stati uccisi, molti di più hanno subito abusi e violenze. Dei 7mila residenti stimati prima del 2011, ne sono rimasti poco più di un migliaio. La ferocia del conflitto, soprattutto, ha spezzato i legami tra i vicini islamici e cristiani, con accuse reciproche di collaborazionismo con i jihadisti o con la dittatura. Una ferita che la caduta repentina del regime e l’irruzione su scala nazionale di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), erede di al-Nusra, ha ora riaperto.
«Per questo l’albero di Natale è tanto importante. Non lo abbiamo allestito, come al solito, nel cortile della centralissima chiesa di Mar Georges, bensì al centro della piazza principale», racconta la sindaca, Maha Alshaher nell’ufficio gelato dalla mancanza di combustibile per il riscaldamento. «Non c’è nemmeno la corrente, fortuna che siamo di giorno». All’indomani della fuga di Assad, il gruppo di giovani incaricato degli addobbi si è presentato al municipio per discutere l’opportunità dell’albero. Nonostante il via libera della prima cittadina, alla vigilia della preparazione, due domeniche fa, i volontari hanno chiesto di nuovo conferma. «Ancora una volta ho detto sì. Non sembravano convinti. La mattina, però, si sono presentati da me alcuni sheikh (predicatori, ndr) musulmani per chiedermi di convincere i ragazzi a fare l’albero. “Per favore, dì loro che vogliamo festeggiare tutti insieme”», aggiunge l’avvocata 45enne, cristiana ortodossa, che ha lavorato, negli ultimi due anni, con la dittatura ma ha scelto di restare in carica per guidare la transizione – gli undici agenti di polizia si sono dati alla macchia come i politici del vecchio sistema - nella “nuova Siria” di Hts. «Non ho mai fatto nulla di scorretto, dunque non temo vendette – precisa –. Quarantotto ore dopo la vittoria della rivoluzione, un rappresentante del nuovo governo, Abu Musab, è venuto a Maalula a incontrarmi. Mi ha dato un numero di telefono a cui rivolgermi in caso di problemi. Finora non l’ho chiamato perché non ce ne sono stati. Cristiani e islamici hanno evitato la violenza. C’è ancora qualche nodo da sciogliere ma i segnali sono positivi». La sindaca – che aveva incluso tre musulmani tra i 25 collaboratori – è determinata a promuovere la convivenza: «Non potrà esserci niente di buono per questo Paese se le varie fedi non si mettono a lavorare insieme».
«Non è facile, ci siamo fatti molto male. Prima della guerra vivevamo in pace. Avevo molti amici islamici. Ora non più», racconta un 65enne che non vuole rivelare il nome e non nasconde la paura. «Sì sono spaventato. Mi sembra di rivivere l’incubo del 2013. Allora mi hanno bruciato la casa e sono dovuto scappare a Damasco per mesi fino a quando il regime non ha ripreso il controllo del villaggio. Non voglio dover partire di nuovo». L’8 dicembre la comunità si è svuotata. In centinaia sono andati via. Per rientrare, però, stavolta, quasi subito. Giorno dopo giorno, poi, aumenta il flusso degli sfollati che fanno ritorno. «Fra loro ci sono anche dei musulmani che ci odiano perché ci ritengono fedeli alla dittatura. Alcuni si sono messi a gridarci insulti fuori dalla chiesa, durante la Messa. Tanti per timore hanno smesso di venire alle celebrazioni: domenica c’era la metà della gente. Io, però, non ci rinuncio. Sarò qui anche questa sera di vigilia», dice indicando l’edificio di Mar Georges, restaurato nel 2018 dalla devastazione jihadista. Padre Jalal Gazal, parroco della chiesa greco-cattolica melchita, sorride bonario: «Comprendo la preoccupazione dei fedeli, ci vuole tempo per capire come si evolverà la situazione.La prima domenica ho celebrato da solo. Sono convinto, però, che alla Messa natalizia di questa notte saremo in tanti». Come nel resto della Siria, la comunità cristiana ha annullato, per prudenza, le tradizionali processioni e altre iniziative pubbliche. «Ma all’interno delle chiese ci sarà la musica, come sempre. E suoneremo le campane», afferma padre Jalal, mentre si muove freneticamente per terminare i preparativi aiutato dalla moglie Maria. Anche Saada dà una mano. La 53enne dirige l’Istituto per la lingua aramaica che impartisce corsi gratuiti di un anno. «Abbiamo anche studenti islamici. Abbiamo ripreso le lezioni normalmente e non ci sono state tensioni», dice, mentre sistema i capelli. «Non ho intenzione di coprirli. Anche molte musulmane non portano il velo. È una scelta. La fede si dimostra nell’amore per gli altri, il resto è secondario. Per questo non può essere imposta. Come recita un vecchio proverbio: “La religione per Dio, il Paese per tutti”».
Poco più su, una fenditura sul monte custodisce la grotta in cui, secondo la tradizione, trovò rifugio Tecla, discepola di San Paolo, in fuga dalla persecuzione. Nell’adiacente monastero ortodosso dedicato alla martire, suor Mariam sistema gli ultimi dettagli per la Messa di Natale. È serena. La conquista del potere da parte di Hts non turba la religiosa libanese: una delle tredici rapita nel dicembre 2013 e tenuta in ostaggio da al-Nusra per tre mesi e tre giorni. «Non sono spaventata. Ho fede in Dio. Un Dio che continua a nascere in questo mondo dilaniato»