«Io, allenatore per un giorno in Cisgiordania. Pensando ad Ammar, ucciso a 13 anni»

L’ex commissario tecnico degli azzurri di pallavolo Mauto Berruto racconta la sue missione da “mister” a Ramallah. Tra rabbia, lutti e voglia di riscatto
December 7, 2025
«Io, allenatore per un giorno in Cisgiordania. Pensando ad Ammar, ucciso a 13 anni»
Il medaglione di mamma Fidaa con la foto di Ammar, 13 anni, promessa dello sport palestinese, ucciso il 23 giugno da un soldato israeliano / M.B.
Ammar ha tredici anni, ama lo sport, è un talento del Muay thai, la boxe thailandese, ha vinto una medaglia di bronzo ai mondiali giovanili in Turchia, ha gareggiato in Thailandia. È una promessa dello sport palestinese, vive con mamma Fidaa e Mohammad, il fratellino di nove anni che sogna di diventare come lui, a Kafr Malik, villaggio a nord-est di Ramallah, la capitale amministrativa della Palestina. Ramallah, città simbolo della Cisgiordania, ospita gli uffici governativi e il mausoleo di Yasser Arafat, circondato dall’acqua a simboleggiare la temporaneità di quel luogo: una tomba provvisoria, in attesa che, insciallah, le sue spoglie possano un giorno riposare a Gerusalemme, come lui desiderava.
A Ramallah c’è anche la sede del Comitato olimpico palestinese che il Cio (Comitato olimpico internazionale) riconosce dal 1995. La Palestina partecipò per la prima volta ai Giochi Olimpici di Atlanta 1996. Un solo atleta: Majed Abu Maraheel, nato nel campo profughi di Nuseirat, Striscia di Gaza, portabandiera e poi in gara nei 10.000 metri. Arrivò ultimo della sua batteria, un minuto dopo il penultimo, sessanta secondi in cui il mondo aveva tenuto gli occhi sulla Palestina. Erano passati appena tre anni dagli accordi di Oslo, era il momento in cui il mondo guardava con speranza a una possibilità di pace fra Israele e la Palestina. E invece Mejed è morto nel giugno 2024, a Nuseirat, perché ammalatosi ai reni aveva bisogno di dialisi, non era più riuscito a curarsi e si era visto negata la possibilità di andare in Egitto.
In quell’occasione ero entrato in contatto con il Comitato olimpico palestinese e la scorsa settimana sono stato in Cisgiordania, accettando il loro invito, in virtù del mio passato di CT della nazionale italiana di pallavolo, a diventare, simbolicamente per un giorno, l’allenatore della nazionale palestinese. Quando a Ramallah ho pronunciato proprio quell’avverbio, «simbolicamente», si sono arrabbiati: «Non esiste nulla di simbolico per noi. Ogni gesto, ogni parola, ogni azione è ossigeno, ci tiene vivi». Così, in una giornata che per me resterà indimenticabile, ho incontrato un folto gruppo di allenatori e allenatrici, molti di loro un po’ assonnati perché, per arrivare puntuali, si erano messi in strada alle quattro del mattino. La Cisgiordania è lunga solo 130 chilometri e Ramallah sta nel mezzo, le distanze non sarebbero un problema se non si dovessero superare i check point che, invece, possono ritardare o proprio impedire di arrivare. Ce ne sono più di mille, disseminati lungo quei territori palestinesi perimetrati dal muro che li divide da Israele, lungo settecento chilometri.
Il pomeriggio, invece, l’allenamento in una palestra accogliente, piena di gente, di aspettative e, per quanto possibile, di gioia. Quando la palla vola, la lingua diventa universale e allora basta uno sguardo o un’occhiata, per capirsi. Chiedo ai ragazzi: «Volete che vi alleni sul serio, come se foste la nazionale italiana, o facciamo una cosa più soft?». Domanda retorica, perché basta una dose davvero minima di sensibilità per capire che quelle due ore sono una luce nel buio, una parentesi di normalità e, insieme, discontinuità da un quotidiano fatto di ansia, terrore, oppressione. Zero dubbi, vogliono essere allenati «sul serio», anche se la qualità tecnica è quella che è, ma a tutti appare chiaro come quella sia l’ultima delle priorità. Percepisco una forza di volontà sovraumana, li stimolo in particolare in un fondamentale, la difesa. «In fondo – dico loro – il campo di pallavolo è un pezzo della vostra terra». Vedo, nei loro occhi, una luce che non dimenticherò mai, vedo corpi che si muovono liberi, vedo cervelli che per due ore si concentrano su altro Ued è già una vittoria.
Una foto di gruppo di Mauro Berruto (in piedi, il settimo da destra) con gli atleti della nazionale palestinese di pallavolo e i loro allenatori nella palestra di Ramallah / M.B.
Una foto di gruppo di Mauro Berruto (in piedi, il settimo da destra) con gli atleti della nazionale palestinese di pallavolo e i loro allenatori nella palestra di Ramallah / M.B.
È un allenamento di quelli che vorresti non finissero mai. Invece bisogna finire e prima che faccia buio. Perché il rischio, adesso, è quello di non poter fare rientro ai propri villaggi. Al termine dell’allenamento ritrovo il gruppo con cui sto viaggiando: Ouidad Bakkali, Laura Boldrini, Valentina Ghio, Sara Ferrari, Andrea Orlando. Incontriamo tre giovani calciatori, tutti minori. «Giochiamo quando possiamo» ci dicono; tutti e tre sono stati in carcere. Il ragazzo davanti a noi ha diciassette anni, è stato rilasciato quattro giorni prima. Hanno tentato di prelevarlo a scuola per arrestarlo, perché ha lanciato dei sassi contro una camionetta dell’esercito israeliano. Si sono presentati sei veicoli blindati, ma gli insegnanti hanno fatto muro e hanno desistito. Sono tornati a casa sua dieci giorni dopo, dieci soldati per arrestare un adolescente. Il ragazzo al suo fianco è rimasto in carcere sei mesi, per fargli firmare le accuse a suo carico gli hanno detto che avrebbero preso sua madre e messa in isolamento. Il terzo ci racconta del fratello ucciso nel 2018, del padre in carcere per diciotto mesi e poi ci mostra una grande ferita in via di guarigione sul braccio. «Me l’hanno fatta mentre ritiravo il cibo dalla fessura della cella, mi hanno bloccato il braccio che dovevo allungare per prendere il vassoio e l’hanno preso a bastonate». Anche lui, come tutte le Ong italiane, palestinesi, israeliane che si occupano di carceri, ci parla della scabbia come strumento di sofferenza, perché i detenuti che ne sono affetti vengono spostati in celle dove altri ancora non ce l’hanno, così si diffonde il contagio. «Mi dicevano: «Grattati finché muori», ci dice e poi ci racconta delle torture nei giorni dei bombardamenti in Iran: «Cosa c’entravo io con quello che succedeva in Iran?». E il calcio? «La nostra squadra era composta da diciassette ragazzi, siamo rimasti in otto, gli altri sono morti o in prigione».
Infine, incontriamo Fidaa, la mamma di Ammar, il talento del Muay thai. Con lei ci sono Mohammad, il fratellino, e Ahmad Abu Dukhan, il suo allenatore. Ammar non c’è, perché il 23 giugno scorso è stato ucciso con una fucilata alla schiena da un soldato israeliano. Il suo corpo è rimasto a lungo a terra, sanguinante e senza assistenza medica, perché la Mezzaluna Rossa non ha avuto il permesso di avvicinarsi. Ammar è morto dissanguato e la famiglia l’ha saputo quando ha chiamato il suo cellulare a cui ha risposto un ufficiale dell’Idf: «Sì, è qui. Morto». Mentre Fidaa racconta questa storia, Mohammad, nove anni, controlla sul cellulare la chat Whatsapp del villaggio di Kafr Malik. «Mamma, hanno chiuso i cancelli. Non si sa quando riaprono». Fidaa abbassa lo sguardo, ancora una volta. Uno sguardo che abbiamo visto ovunque, che porta dentro una sorta di accettazione della realtà, dolore infinito e, contemporaneamente, dignità e resistenza. Ahmad, l’allenatore, dice che Ammar portava gioia in palestra, che era amato da tutti. Quel pomeriggio, uno dei tanti in cui non era potuto venire a Ramallah perché i cancelli di Kafr Malik erano chiusi, aveva mandato un messaggio a lui e ai compagni. «Ho visto la notifica, ho pensato mi chiedesse del programma di allenamento, come faceva sempre quando non poteva muoversi», sussurra. «Un’ora dopo ho visto che il messaggio era stato cancellato da Ammar. Non ho mai saputo cosa volesse dirmi. Non mi perdono di non avergli risposto subito», e anche il suo sguardo si abbassa.
Ammar ha tredici anni, ama lo sport, è una promessa dello sport palestinese e oggi riposa a Kafr Malik, villaggio a nord-est di Ramallah, vicino alla sua mamma Fidaa e a un fratellino che sogna di diventare come lui. Ed io, di Ammar, voglio parlare al presente perché non vincerà più medaglie, ma è diventato lui stesso una medaglia che mamma Fidaa porta al collo. C’è la sua fotografia, sorridente e orgoglioso, in posa da piccolo atleta. Piccolo, sì, la definizione di un bambino. «Era solo un bambino» ripete Ahmad, l’allenatore. «Quando l’ho visto morto ero furioso, devastato. Non c’era stato nessuno scontro quel giorno. Perché è successo questo?». Già, perché?

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