martedì 4 aprile 2017
Dietro le bombe di San Pietroburgo, e quel rozzo ordigno che ha fatto strage nel cuore sotterraneo della città, in uno dei 1.600 vagoni che ogni giorno trasportano 2,3 milioni di persone
Lo Zar, le proteste e la tentazione facile dell'«infiltrazione esterna»
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Dietro le bombe di San Pietroburgo, e quel rozzo ordigno che ha fatto strage nel cuore sotterraneo della città, in uno dei 1.600 vagoni che ogni giorno trasportano 2,3 milioni di persone, c’è tutto il paradosso della Russia putiniana. Perché questo è il Paese che ogni giorno dipingiamo retto da un’autocrazia senza meriti e senza princìpi, corrotta e incapace di avviarlo sulla strada di un corretto sviluppo economico. Una petromonarchia dominata da gruppi di banditi e funzionari corrotti forti solo della benedizione del Cremlino. Uno Stato canaglia pure incline alla guerra e ora intento a preparare piani di battaglia che riguardano mezzo mondo. La culla degli hacker, il laboratorio di progetti politici che mirano a soggiogare gli Usa e a lanciare una specie di “scontro di civiltà” con l’Europa delle democrazie.

Una Tortuga che non funziona. Non lo diciamo così, ma lo pensiamo così. Eppure la Russia, e qui sta il paradosso, è oggi il centro politico del mondo. In Medio Oriente ha giocato carte decisive in Siria, e altre le butta ogni giorno sui tavoli dell’Iran, della Turchia, della Libia. Ha un rapporto strategico con la Cina, la grande potenza che sempre meno nasconde le proprie ambizioni. Ha tenuto in scacco gli Usa di Obama e ha sfidato tutti in Ucraina. Si fa beffe, almeno a parole, delle sanzioni economiche varate dall’Europa. È disposta ad affrontare il confronto politico-militare con la Nato sui delicati confini di quella che chiamavano Europa dell’Est e che tale è tornata a essere.

L’ombra di questo paradosso, dunque, si proietta anche sull’ordigno artigianale, potente come 300 grammi di tritolo, che ha fatto strage nel convoglio affollato dell’ora di punta. Poco prima dello scorso Natale, fu intercettato a Mosca un commando di jihadisti e simpatizzanti del Daesh che voleva colpire durante le feste. Potrebbero essere stati i loro “colleghi” a insanguinare San Pietroburgo, magari per lanciare un sinistro messaggio a Vladimir Putin, che era appena stato in città. Se non loro, perché non qualche fanatico nazionalista ucraino? O un irredentista baltico davvero convinto che l’Armata Rossa sia di nuovo in marcia? O un figlio di quel Caucaso irrequieto da sempre, pacificato con la forza, e patria nel 1997 del primo Califfato?

Il protagonismo crea nemici, procura nuove sfide. Che non è sempre possibile combattere in casa d’altri. La metropolitana è un luogo d’elezione per gli attentati, ben lo sanno i moscoviti colpiti due volte, nel 2004 e nel 2010. Ma la bomba di San Pietroburgo ha la potenza giusta per incrinare quel clima di ottimismo naziona-lista, di presunta invincibilità, che negli ultimi tempi ha sollevato Vladimir Putin ai vertici del gradimento da parte degli elettori. I morti in guerra si possono celebrare o nascondere, i cittadini straziati nel metro si possono solo piangere, al riparo dell’infima consolazione che offrono le ipotesi sui colpevoli.

All’inquietudine per il nemico esterno si aggiunge quella per il tarlo interno. La Russia ha appena vissuto, grazie all’infaticabile agitatore Alekseij Navalny, la più imponente e meglio organizzata ondata di proteste degli ultimi vent’anni. Proteste, vale la pena notarlo, che alla base non avevano una scadenza o un voto (come fu nel 2011 con le elezioni politiche, nel 2012 con le presidenziali, nel 2013 con la scelta del sindaco di Mosca) ma una parola d’ordine: no alla corruzione. E i protagonisti di queste proteste sono stati i millennials, che per la Russia vuol dire i giovani nati subito prima o subito dopo il crollo dell’Urss. Il dilemma del Cremlino, ora, è come fronteggiare questa doppia promessa di disordine evitando la facile tentazione di mettere l’infiltrazione esterna e la contestazione interna nello stesso paniere. È una sfida nuova e più sottile, per Vladimir Putin. Che tra un anno, non dimentichiamolo, andrà alle elezioni presidenziali, per quel secondo mandato della seconda volta al Cremlino che dovrebbe decretare la sua uscita di scena. In teoria.

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