
Il presidente russo Vladimir Putin con il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, a gennaio, dopo la firma di un patto militare - Ansa
Mentre il Medio Oriente brucia sotto i colpi reciproci di Israele e Iran, il G7 si riunisce a certificare insieme la propria inerzia e la propria impotenza. I Sette Grandi sono infatti ben poco determinati (Stati Uniti in primo luogo) a cercare di convincere Tel Aviv a moderare la sua azione contro Teheran. E, se anche alcuni Paesi (Europa e Canada) ci provassero, i risultati sarebbero prevedibilmente ben miseri. Manca nel consesso, ovviamente, il leader (l’ottavo, presente fino al 2014 e poi escluso per l’invasione della Crimea) che più di altri sembra avere qualche argomento per tentare una mediazione tra i belligeranti.
Le telefonate di venerdì alle due capitali in guerra mostrano infatti la linea di bilanciamento che Vladimir Putin prova a perseguire: sostenere politicamente il regime degli Ayatollah, ma presentarsi come un mediatore di potere responsabile che frena l’allargamento del conflitto, soprattutto per evitare di compromettere i propri interessi energetici e l’immagine di negoziatore globale, malgrado sia sotto accusa per l’aggressione all’Ucraina. Dal 2022 la cooperazione fra Mosca e Teheran è passata da una partnership opportunistica a un patto strategico formalizzato: il 17 gennaio scorso i due presidenti hanno firmato un Trattato di Partenariato di vent’anni, che istituzionalizza la cooperazione in materia di difesa, energia, commercio e pagamenti. Entrambi i Paesi sono sotto sanzioni occidentali e si vedono alleati nell’aggirarle e per controbilanciare l’influenza americana. Il Cremlino inoltre spinge per l’ingresso pieno dell’Iran nei Brics+. Ma Teheran è già da tempo un importante fornitore di droni e missili utilizzati ampiamente contro l’Ucraina, ricevendo in cambio caccia Su-35SE e difese antiaeree (dimostratesi tuttavia poco efficaci in questi mesi).
Il punto nodale resta la cooperazione per il programma nucleare con Rosatom che, secondo la Russia, è solo “per scopi pacifici”, anche se poi si chiudono gli occhi sull’arricchimento dell’uranio. Per Putin, Teheran deve essere un cuneo anti-occidentale, da usare all’occorrenza per l’accesso al Golfo Persico e manovrare l’asse sciita, duramente colpito da Israele negli ultimi due anni. Pragmaticamente, il Cremlino non vuole nemmeno un Iran troppo forte sul fronte nucleare o troppo ostile ai Paesi arabi con cui vuole mantenere buoni rapporti, a partire dall’Arabia Saudita.
Qui sta l’esercizio militare-diplomatico dello zar. Pur non essendo (e non potendo diventare) “alleati strategici”, Russia e Israele mantengono aperto (nonostante la tragedia di Gaza e ora l’attacco al nucleare iraniano) un rapporto fondato sulla gestione dello spazio aereo siriano, la comunità russofona in Israele e la volontà di entrambe le leadership di non chiudere porte in un Medio Oriente in rapida evoluzione.
In maggio, il premier Benjamin Netanyhau ha ringraziato Putin per il rilascio di un ostaggio russo-israeliano e i due leader hanno riaffermato «l’impegno alla verità storica sulla Seconda guerra mondiale». In precedenza, il 24 febbraio, Israele, a sorpresa, aveva votato contro una risoluzione Onu per l’integrità territoriale ucraina, un segnale verso Mosca. Un meccanismo di coordinamento operativo pare consentire a Israele di colpire obiettivi iraniani senza scontrarsi con l’Aeronautica russa, mentre dopo la caduta di Assad, Tel Aviv ha chiesto a Washington di lasciare a Mosca il controllo delle basi siriane di Khmeimîm e Tartus in chiave anti-turca e anti-iraniana. D’altra parte, come detto, la presenza di oltre un milione di cittadini russofoni rende Israele attento a non alimentare sentimenti anti-russi. Il rapporto Putin-Netanyahu è un gioco di specchi: ognuno usa l’altro come strumento. La Russia per legittimarsi in Medio Oriente; Israele per mantenere la libertà di operare contro l’Iran. Finché i benefici di volta in volta superano i costi, il dialogo rimarrà aperto, ma l’equilibrio si fa più instabile con l’escalation in corso.
Il G7 così sta a guardare quando potrebbe avere una buona carta da giocare: sostegno difensivo a Israele, esplicito e fattivo, con l’assicurazione di una tregua umanitaria a Gaza che permetta di alleviare la sofferenza della popolazione civile. Una mossa che allenterebbe la tensione e circoscriverebbe il ruolo che Putin, con il suo attivismo dal Cremlino, prova a ritagliarsi nell’inerzia e nell’impotenza degli altri attori internazionali.