
Blindati israeliani a Jenin - ANSA
«Ero al lavoro. Quando ho finito il turno ho scoperto di non avere più una casa a cui tornare». Abu Nair ha rivissuto migliaia di volte la scena in cui la moglie l’ha chiamato per avvisarlo che li stavano sgomberando. «Non sono potuto nemmeno passare a prendere qualcosa: bagagli, effetti personali, vestiti. In un istante mi sono trovato profugo». Sono trascorsi tre mesi da quel giorno di gennaio in cui l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel campo di Jenin, dove risiedono oltre 20mila sfollati e discendenti dell’esodo dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948. Prima c’erano state settimane di incursioni anti-terrorismo da parte delle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Tutti, dal Giordano al mare, ricordano perfettamente il 21 gennaio scorso: il primo giorno di tregua per Gaza e di offensiva per il nord della Cisgiordania. L’operazione “Muro di ferro” è cominciata proprio da Jenin, roccaforte della Jihad islamica secondo Tel Aviv e per questo bersaglio di continui blitz prima e dopo il 7 ottobre. Poi è toccato a Nur al-Shams, Tulkarem, Tubas. Ovunque i militari hanno preso il controllo delle aree “calde” ed espulso gli abitanti.
In totale, secondo i dati dell’Ufficio Onu per i diritti umani (Ocha), almeno 42mila persone sono state sfollate. Dodici settimane dopo, il conflitto nella Striscia è ripreso mentre quello nei Territori non è mai finito. «Come altro lo vuole chiamare? L’esercito occupa i nostri quartieri e ci impedisce di tornare – aggiunge l’uomo, impiegato del ministero dei Trasporti dell’Anp –. Se solo mi affaccio, i cecchini minacciano di spararmi. Abitazioni e strade sono state distrutte. E quello che si è salvato verrà presto demolito». Alla fine di marzo, l’esercito di Tel Aviv – che mantiene in modo permanente nel campo due battaglioni – ha annunciato l’abbattimento di 95 edifici, senza dare, però, indicazioni sui tempi. Le aree coinvolte sono tuttora off-limits. Non è, dunque, possibile avere un quadro certo della situazione.
L’analisi delle immagini satellitari realizzata da Planet Labs e diffusa due settimane fa rivela, però, una devastazione sistematica. Seicento case – un terzo del totale – risultano rase al suolo o inagibili solo nel campo di Jenin, il più colpito, altre 300 a Tulkarem e Nur al-Shams. «Da noi anche le infrastrutture di base hanno subito danni permanenti. Ci sono state, inoltre, distruzioni anche nella parte nord ed est della città», sottolinea il sindaco della capitale palestinese del nord, Mohammed Jarrar.
Secondo le autorità municipali occorreranno almeno 300 milioni di dollari per la ricostruzione. Risorse che né il Comune né l’Anp hanno. La questione più urgente, però, è quella dei profughi. Abu Nair, come buona parte dei vicini senza parenti in grado di ospitarlo, è finito a Zababdeh. Il villaggio spunta all’improvviso dopo 15 chilometri di pietre, ulivi e campi che si estendono a nord di Jenin. Lungo la strada per Qabatiyah compare d’un tratto lo svincolo per la Arab American University, ateneo di prestigio fondato all’inizio degli anni Duemila, dove, prima della guerra, studiavano oltre 10mila giovani, per il 70 per cento israeliani di origine palestinese. Impossibile per gli universitari fare avanti e indietro quotidianamente attraverso il groviglio di check-point e barriere che blindano questo frammento di Cisgiordania: per raggiungerlo, e percorrere circa 130 chilometri, chi scrive ha fatto un totale di undici ore di viaggio. Zababdeh si è popolata, dunque, di dormitori che il conflitto, nell’ultimo anno e mezzo, ha svuotato. Fino allo scorso gennaio quando sono arrivate 549 famiglie dal campo di Jenin.
«Hanno sgomberato un campo profughi e, in pratica, ne hanno creato un altro, ancora più precario. Il 70 per cento degli espulsi lavorava in piccoli negozi e attività informali all’interno dell’enclave. Ora sono disoccupati», sospira Abu Nair che appartiene al terzo dei fortunati in quanto impiegato pubblico. Riesce, dunque, a pagare i 150 dollari mensili – circa un quarto dello stipendio – per l’affitto di un mini-appartamento per lui, la moglie e la figlia. Gli altri devono accontentarsi delle camerate messe a disposizione gratuitamente dalle autorità locali con il supporto di alcune organizzazioni umanitarie: in ciascuna alloggiano una o due famiglie. «Siamo mia madre, mia sorella, mio cognato, i loro quattro figli e io. Ma c’è a chi va molto peggio», racconta Fadia, 34 anni: uno dei dieci abitanti uccisi nel primo giorno di Muro di ferro era il fratello 26enne del cognato. «Non aveva niente a che fare con la resistenza armata. Stava solo passando», aggiunge la giovane, operatrice dell’Omniah youth centre, centro per l’integrazione socio-economica di giovani e persone vulnerabili che, grazie a un progetto di Caritas Gerusalemme, assiste un migliaio di sgomberati. Come lei. «Nella prima fase abbiamo fornito pacchi di cibo. Da due settimane abbiamo cominciato con la distribuzione di un sostegno economico per affrontare le molte spese», spiega Mohammed, il coordinatore di Omniah. L’emergenza rischia di diventare cronica. «Credo che potranno tornare in pochi. La mia casa non la rivedrò più – sottolinea Abu Nair –. Mi sono imbattuto su un filmato pubblicato nei social in cui si vedeva l’intera palazzina, di tre piani, ridotta in cenere. Al suo posto c’era un cumulo di macerie». Fadia non demorde: «Aspetto, ogni giorno. Prima o poi sarò di nuovo nel mio quartiere. Inshallah».