mercoledì 16 marzo 2022
L'acclamata autrice di "Zuleika apre gli occhi" rompe il silenzio: credevo nella pace, è stato un tradimento. Noi e gli ucraini siamo fratelli e dalla stessa parte della barricata
Guzel' Jachina

Guzel' Jachina - Lenar Karimov - Salani Editore

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Guzel' Jachina è tatara: nata a Kazan nel 1977, madre medico e padre ingegnere; nel 1999 si è trasferita a Mosca dove si è specializzata in sceneggiatura. "Zuleika apre gli occhi" è il suo romanzo d’esordio, apparso in Russia nel 2015 e pubblicato in Italia da Salani nel 2017. Da quest’opera, tradotta in oltre 30 Paesi, è stata tratta una serie tv di grande successo. Il suo libro, ispirato alla storia della nonna materna, una kulaka deportata in Siberia, ha vinto diversi riconoscimenti internazionali e l’ha portato a viaggiare in tutta Europa, Italia compresa, dove nel 2020 ha ricevuto il premio Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nel 2018 ha dato alle stampe la sua seconda opera, "Figli del Volga", pubblicato sempre da Salani nel settembre 2021; è un altro romanzo storico di ampio respiro, nella migliore tradizione russa, ambientato agli inizi del Novecento nelle steppe immense dove si consumano i destini degli uomini.

Fino a pochi giorni fa Guzel’ Jachina, scrittrice e sceneggiatrice russa di origine tatara, residente a Mosca, autrice di due romanzi di grande successo, tradotta in oltre 30 Paesi, non aveva voluto rilasciare interviste. Troppo grande lo choc per l’avanzata russa, forse troppo grandi le preoccupazioni per ciò che libere dichiarazioni avrebbero potuto causare in patria a sé e alla propria famiglia.

Signora Jachna, lei è nata a Kazan', è di origine tatara, e per i primi 14 anni della sua vita ha vissuto in quella che era l’Unione Sovietica. Nella lettera che ha scritto ai suoi editori e lettori esteri, e che in Italia è stata pubblicata da La Stampa, ha raccontato che quando era bambina la pace era dovunque a scuola, nelle poesie e nelle bandiere, nelle canzoni e nei disegni. E che dunque lei è cresciuta con la “certezza della pace”. Cosa ha provato quando il 24 febbraio i carri armi russi sono entrati in Ucraina?

La mattina del 24 febbraio non credevo ai miei occhi, leggendo le notizie. E la sensazione che non ci sia niente di vero, che sia un incubo da cui potremo risvegliarci non mi abbandona a tutt'oggi. La sensazione è anche un'altra, però, ed è quella di cadere in un baratro, in un buco nero in cui continueremo a sprofondare finché si combatterà. Sono le stesse sensazioni che provano i miei amici e conoscenti. Tutti quanti. Nessuno si aspettava quanto sta accadendo in Ucraina: non se lo aspettavano i politologi e non se l'aspettava la gente comune. La mattina del 24 febbraio il mio mondo è crollato. E ora mi ritrovo, ci ritroviamo tutti, a vivere in un mondo nuovo che stentiamo a comprendere fino in fondo. Una cosa soltanto conta, però, ed è fermare le azioni militari, è un cessate il fuoco immediato. Qualunque pensiero o riflessione sugli scenari futuri è possibile solo dopo che in Ucraina si smetterà di morire. La popolazione civile non può vivere col terrore dei bombardamenti. I bambini non possono nascere nei rifugi sotterranei. Due milioni e mezzo di persone non possono essere costrette a scappare. Le armi devono tacere. È vero, per quattordici anni, per tutta la mia infanzia e adolescenza, sono stata una cittadina sovietica. Ma erano anni in cui, pur lavorando a pieno ritmo, la retorica della propaganda era più pacifista che comunista. Siamo cresciuti con la lezione di Pace (con la maiuscola, proprio così!), le canzoni e i discorsi sulla pace ogni primo giorno di scuola, siamo cresciuti con le colombe sui quaderni e alle pareti delle aule... Credere nella pace era una certezza per ogni bambino sovietico, e con questa certezza siamo cresciuti. La generazione dei miei coetanei, dei quaranta-cinquantenni di oggi, è la spina dorsale della società. Non riesco a credere che molti fra loro possano sostenere quanto sta succedendo in Ucraina. E non capisco perché l'iniezione di pacifismo che ci hanno fatto da piccoli non abbia funzionato per tutti.
Il popolo ucraino, come quello tataro, era parte dell’Unione Sovietica. Un popolo fratello in tanti campi, tra i quali senz’altro la letteratura. Cosa si sentirebbe di dire a questa popolazione oggi messa a dura prova?
Dico loro tante cose. Ci sentiamo spesso al telefono: come molti russi, ho parenti e amici in Ucraina. I rapporti umani restano saldi, anzi, forse si sono persino rafforzati. Siamo dalla stessa parte della barricata e vogliamo la stessa cosa: che questa follia abbia fine. Più difficile, invece, è parlare con chi in Russia (vicini di casa, conoscenti) non si interessa di politica, ritiene che in Ucraina non stia accadendo nulla di eclatante e continua a fare la vita di sempre in una specie di realtà parallela. Non sono malvagi, credono anche loro nella pace e sono sicuri che gli ucraini siano nostri fratelli. Ma subiscono l'effetto della propaganda e non capiscono cosa sta succedendo davvero. Gli esaltati che inneggiano alla guerra sono una minoranza. La totale estraneità alla politica è un tratto radicato nella società russa. Nel corso degli anni i sovietici prima e i russi poi hanno imparato a guardare alla politica come si guarda al meteo: se scoppia un temporale c'è poco da fare, bisogna solo ripararsi e aspettare che passi. Un fatalismo che ha una spiegazione elementare. In epoca sovietica il ruolo dello stato era enorme e incideva (e ha inciso) su diverse generazioni. Senza esclusione alcuna. La politica spezzava, distruggeva o ispirava la vita di ogni una famiglia: amori e passioni, la scelta di un compagno, le fatiche dei singoli, la nascita e l'educazione dei figli, i trasferimenti, la composizione etnica dei nuclei familiari... Moltissimi finirono al confino o nei lager (tra Siberia, grande Nord e Kazachstan), altrettanti furono mandati a lavorare in zone lontane, a dissodare terre incolte o nei grandi cantieri, mentre chi sceglieva l'esercito poteva ritrovarsi a migliaia di chilometri da casa. Nessuno pensava di poter essere l'artefice del proprio destino: lo stato era il pendolo delle storie familiari sovietiche, la ragione primaria di quanto (di buono o di cattivo) poteva accadere. In altre parole, in Russia la Storia entrava in ogni famiglia. O meglio ancora, era il capofamiglia. E al capofamiglia non si tiene testa. Al capofamiglia si obbedisce. O si finge di obbedire pur di campare. Giorni fa ero in un paesino di campagna a comprare delle verdure in un mercato. Mentre pesava un chilo di barbabietole, la contadina che le vendeva mi ha detto: "Auguriamoci un cielo senza nuvole". D'altronde, "basta che non ci sia la guerra" è un intercalare, una preghiera quasi, che ripetono instancabilmente tutti gli anziani, tutti coloro che la guerra l'hanno vista e vissuta.

Il suo primo libro, “Zuleika apre gli occhi”, racconta l’epoca durissima della deportazione dei contadini russi, i kulaki, in nome della collettivizzazione forzata della terra. Vede qualche assonanza tra quel periodo storico, gli anni Trenta del Novecento, che lei ha descritto attraverso gli occhi di una povera donna, e quello attuale?

Il paragone fra la Russia di oggi e l'Unione sovietica non è nuovo, lo fanno in tanti. Non credo, però, che questi parallelismi spicci servano a qualcosa: piuttosto, fissano un punto di vista e arginano lo sguardo. Con tutte le sue metastasi e i suoi crimini, l'Unione sovietica è la nostra anamnesi. Che purtroppo non è mai stata portata fino in fondo. Da più di un secolo la nostra società non fa che passare di trauma in trauma, prima uno, poi un altro, poi un altro ancora, senza riuscire ad assimilare una sorta di esperienza storica, senza riuscire a elaborarla, a raggiungere una sorta di consensus. La rivoluzione del 1905, la prima guerra mondiale, la rivoluzione del 1917, la Guerra civile, le carestie, la dekulakizzazione, gli anni del Grande Terrore, la seconda guerra mondiale, lo sfacelo del dopoguerra, la stagnazione, il crollo dell'Unione sovietica: è successo tutto in un secolo scarso. All'elaborazione di questi traumi sovietici oggi abbiamo aggiunto quello di un'altra guerra.

Zuleika emerge come un’eroina della storia, sulla scia delle grandi figure della letteratura russa. Ci parla dapprima di sottomissione, di accettazione di una misero destino, poi di un grande amore materno. Anche oggi le donne russe, nella contemporaneità, sono capaci di resistenza e amore come Zuleika? Come vivono in particolare le donne russe questa situazione con l’Ucraina? Abbiamo visto il dolore per i giovanissimi figli caduti in divisa, e la paura per coloro che sono al fronte… Lei, da scrittrice che ha esaminato l’animo femminile, riesce a “sentire” la loro angoscia?
Non credo che le donne vivano quanto sta succedendo in modo diverso, più acuto o più profondo. Non parlo, ovviamente, di chi ha un figlio che è stato mandato a combattere. Per molti russi, senza distinzione di sesso, la catastrofe ora in corso in Ucraina è una tragedia. Per tutti sarà obbligatoriamente una svolta. Per qualcuno implicherà una scelta fondamentale: l'emigrazione.È presto per dire quale tipo di catastrofe dovrà affrontare la Russia (perché che debba affrontarla è fuori di dubbio). Prima devono tacere le armi in Ucraina. Solo poi si potrà guardare alla Russia. È comunque evidente che un cambiamento dovrà esserci. La nostra realtà sta già cambiando a vista d'occhio, muta a una velocità plateale: in senso politico, culturale ed economico. Certo, la nostra psiche troverà il modo di adattarsi, di abituarsi anche a questa "nuova normalità" (una definizione per cui dobbiamo ringraziare il Covid e la pandemia). È essenziale, però, conservare dentro di noi anche la "normalità vecchia". È essenziale custodirla al meglio. Nel mio ultimo romanzo, La tradotta per Samarcanda, ho cercato di dimostrare un cambiamento analogo accaduto un secolo fa, dopo la rivoluzione e le carestie. Negli anni Venti la normalità era fatta di ragazzini abbandonati (i besprizornye), di gente affamata accasciata per strada, incapace di reggersi in piedi, di migrazioni in cerca di cibo, di criminalità, prostituzione e linciaggi. Non è quello che ci aspetta, certo, i tempi sono cambiati. Ma che la nostra realtà futura sarà molto più dura dell'attuale non può che essere evidente. E tutti dovremo farci i conti.
Qual è il ruolo degli intellettuali russi in questo momento? C’è dibattito, ci sono prese di posizione comuni? Come possono far sentire la loro voce?
Ci sono state moltissime petizioni promosse da ogni sorta di associazioni professionali: i collaboratori delle ONG, gli scienziati, gli accademici, la gente di teatro, i rapper, gli ideatori di videogiochi, i letterati, gli studiosi di Shakespeare... Ma temo che siano voci troppo fioche. Mi azzardo a dire che chi ha sottoscritto queste petizioni lo ha fatto non nella speranza di ottenere qualcosa, ma per rispondere alla propria coscienza.
Lei vive a Mosca. Le sanzioni imposte dall’Occidente che tipo di reazione suscitano nei cittadini russi, a parte gli inevitabili mutamenti nello stile di vita?
Più che per i cittadini russi, rispondo per me stessa, se posso. Un eventuale ridimensionamento nello stile di vita non mi spaventa minimamente (e come me, non spaventa quelli della mia generazione, che ne hanno viste tante). Piuttosto, mi spaventa il progressivo, precipitoso isolamento della Russia. Stanno bruciando i ponti culturali fra la Russia e il resto del mondo. Ponti che avevamo costruito negli ultimi trent'anni. La prima volta che mi portarono all'estero, da bambina (era il 1995), i miei coetanei francesi mi chiesero, serissimi, se era vero che in Russia per strada c'erano gli orsi. In uno dei miei ultimi viaggi in Francia, invece, gli scolari di un minuscolo paesino di provincia hanno scritto e messo in scena uno spettacolo sul Tatarstan: hanno mostrato fotografie dell'epoca, hanno recitato proverbi, cantato canzoni e ballato danze tatare. Per costruire quel ponte - dalla "Russia degli orsi" alla evidente comprensione della sua componente multietnica - ci erano voluti trent'anni. E quel ponte ora è saltato. Seguo con estrema attenzione sui mass media stranieri i dibattiti sulla Cancel Russia e l'atteggiamento da tenere con la cultura russa e i suoi portatori. Ora che i ponti economici e politici sono saltati, è estremamente importante che quelli culturali e scientifici possano continuare a essere percorsi. È un dato di fatto che, in Russia, nelle file dell'opposizione al governo e alla sua politica ci sono spesso stati scrittori, artisti e studiosi. Sono loro la parte del paese che guarda all'Europa e che, dunque, più patisce (e patirà) lo strappo con l'Europa stessa. La cultura e la scienza non meritano questa condanna.
Nella lettera inviata ai suoi editori e lettori esteri, lei auspica un immediato cessate il fuoco, in nome del valore della vita umana. Qual è la sua opinione su come proseguiranno le operazioni in Ucraina? E quale ferita lascerà nella storia dei due popoli fratelli?
Milioni di persone sulla terra si fanno ogni giorno una domanda: quando finirà tutto questo? Nessuno, purtroppo, sa dare una risposta. Quanto accade in Ucraina è per la comunità globale il secondo caso di esperienza condivisa, di dolore diffuso. Il prima è stato la pandemia, due anni fa.Oltre ai due fratelli già citati, il popolo ucraino e quello russo, ce n'è un terzo: il popolo bielorusso, coinvolto anch'esso nel conflitto. È lampante che fra questi tre paesi si aprirà un baratro. E che ci vorranno diverse generazioni perché la ferita inizi a rimarginarsi.Chi più soffrirà per questa catastrofe sono ovviamente i bambini. I bambini di tutti e tre i paesi. È una sofferenza palese, psicologica: si erano appena ripresi dalla paura del Covid e si sono ritrovati in preda al terrore per la guerra; inevitabilmente i due traumi insieme saranno determinanti per la loro crescita. Ma è anche una sofferenza nascosta, sottile, di cui pagheranno il prezzo più alto: qualcuno di loro dovrà convivere con la paura devastante della guerra vissuta, qualcun altro crescerà in una Russia chiusa al mondo.

Traduzione dal russo di Claudia Zonghetti



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